giovedì 1 settembre 2016
Tabucchi, l’epigono resistente
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Tutto comincia nel 2010, quando Maria Cristina Mannocchi accompagna i suoi allievi in gita a Lisbona dove Antonio Tabucchi, molto generosamente, accetta di incontrare la scolaresca per una conferenza che resterà memorabile. Il libro della Mannocchi, La trama dell’invisibile. Sulle tracce di Antonio Tabucchi (Edizioni Ensemble, euro 12,00) muove da quella gita, ma non racconta solo quel viaggio: ne viene fuori, tra la vita e il libro, un itinerario attraverso i luoghi cruciali dello scrittore pisano, a cominciare dall’azzurrissima Lisbona di Pessoa («Lisbona scintillava a vento e sole e io pensavo alla morte come a Pereira»), luogo dell’anima della stessa Mannocchi. Un libro suggestivo, vorrei sottolinearlo, anche per la forma in cui è scritto: ove, puntando su numerosi a parte d’autore, mentre gioca con l’antica tecnica della contaminatio tra i generi letterari, Mannocchi parla di Tabucchi (e di sé), ma per parlare di tutto, come nello struggente capitolo “Elisa”, dedicato alla studentessa che morirà, come Tabucchi, due anni dopo quella gita, quasi nel segno d’un misterioso legame. Un libro costruito anche sulle testimonianze dei molti che Tabucchi conobbero: e che mettono lo scrittore al centro di una ideale comunità letteraria.

 

A cominciare da don Alessandro Santoro che, d’uno scrittore preoccupato per le sorti dei Rom fiorentini, fornisce il ritratto più bello: «Una persona ad alta intensità ma a basso protagonismo». Che scrittore è stato Antonio Tabucchi? Di sicuro apparteneva all’ultima generazione di scrittori, quelli nati tra la fine degli anni ’30 e gli inizi dei ’40 (Gianni Celati, Vincenzo Cerami, Antonio Debenedetti, Franco Cordelli, Giorgio Montefoschi, Nico Orengo, Sebastiano Vassalli), per i quali lo statuto del romanzo continua a costituire un problema, dando per ovvio il confronto con la tradizione. Sentivano e sentono ancora, costoro, il pungolo delle neoavanguardie, anche se, per motivi di anagrafe, ne avvertivano il punto di non ritorno, il vicolo cieco entro cui quelli del Gruppo ’63 s’erano imbudellati.

 

La generazione successiva – quella che si ricapitola nel nome generoso di Tondelli, e che ha potuto contare anche su alcuni fuoriclasse come Claudio Piersanti e Sandro Veronesi – tornò al racconto puro, questo è certo, ma per effetto d’una rimozione del problema, e cioè in totale assenza d’una pur minima coscienza epistemologica. Con la narratologia e la scienza della letteratura, insomma, decedeva pure ogni forma di teoria. Potrei metterla così: se è vero che ogni rimozione mette capo a una nevrosi, non importa se collettiva, il ritorno al romanzo degli anni ’80 (quella che Stefano Tani, nel 1990, seppe definire bene come un «romanzo di ritorno») ci appare, oggi, come l’evidente pronuncia d’un sintomo, di cui sia stata però completamente smarrita la nozione stessa della malattia. Non credo si possa riconsiderare la vicenda di Tabucchi senza implicarvi un atto di resistenza a tale azzeramento culturale, che aveva introdotto un’idea di romanzo come mera e acritica risposta a un generico bisogno di storie.

 

Per Tabucchi, come per Celati e Cordelli, invece, quell’idea continua- va a nutrirsi di critica della cultura e cultura della critica. Né si spiegherebbe perché, dopo l’intenso esordio di Piazza d’Italia (1975), che valeva come una libertaria e visionaria controstoria nazionale, su tre generazioni, Tabucchi si affidasse a un’inquieta sperimentazione delle forme: dai racconti di Il gioco del rovescio (1981) al romanzo di formazione Notturno indiano (1984), dal giallo Il filo dell’orizzonte (1986), alla trilogia portoghese e storico-politica di Requiem (1992), Sostiene Pereira (1994) e La testa perduta di Damasceno Monteiro (1997), per citare solo i libri della fase ascensionale e gloriosa della sua carriera, ma sostanzialmente confermandosi, poi, nel romanzo Tristano muore (2004) e nei racconti di Il tempo invecchia in fretta (2009). Faceva aggio in molti, allora, l’idea postmoderna – autorizzata in Italia dal vincente Eco de Il nome della rosa (1980) – che tutto fosse già stato scritto: e che agli scrittori non toccasse altra sorte che riscrivere. Magari nel sospetto che, per vedere più lontano, bisognasse salire come quei celebri nani sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto. Risale proprio a questa stagione culturale la celebrazione d’autori come Borges, mentre le pagine degli imitatori si caricavano di simboli ad alta temperatura novecentesca (lo specchio, il labirinto, il doppio, la biblioteca di Babele, e così via), riuscendo nell’impresa di sollevare ai livelli di un’intelligenza didattica, e d’un alto intrattenimento, i mali e le angosce del secolo. 

 

 Tabucchi, molto più accorto, guardò al meno usurato e gigantesco Pessoa (ma anche a Pirandello): cui dedicò l’omaggio d’un personaggio, Maria do Carmo Meneses de Sequeira, già nel suggestivo (e metaletterario) Il gioco del rovescio. Pessoa, di fatto, fu il prisma luminoso entro cui caricare il suo bell’italiano di magiche risonanze: così facendo, s’internazionalizzò, ma non seppe più risalire alle radici vigorose di quell’Italia anarchica che lo aveva rivelato. Emblematico e terminale, a questo proposito, Tristano muore che s’avvale d’una sottile trama di mediazioni intellettuali e che sceglie come protagonista un eroe partigiano che ha combattuto in Grecia e torna a morire in Italia, vegliato da uno “Scrittore”, il quale ha già scritto un libro su di lui, e che lo ascolta appuntando tutto. Emblematico e terminale sin dal titolo, direi: dove la suggestione wagneriana ci suggerisce un nichilismo che, nel suo Tristano, il grande compositore postulò come il punto d’arrivo della sua opera. Nichilismo che resta per Tabucchi, come per molti altri scrittori europei nati alla vita e alla letteratura nei suoi stessi anni, la cifra novecentesca sin troppo riconoscibile d’un elegante epigonismo, da cui – mi pare – non seppe uscire.

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