martedì 31 ottobre 2017
Istruire significa anche emancipare. Fu così nel secolo scorso, quando ai ragazzi venne fatto conoscere un mondo altro da quello rurale. Oggi è bene che nelle aule si stacchino dai display
Disegno di Solinas

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Oggi in molti tendono a identificare l’innovazione col progresso tecnologico, e, a proposito di quest’ultimo, a confondere l’aumento delle possibilità dei mezzi tecnici di 'servire' all’uomo con l’idea che ogni ambito dell’istruzione e della ricerca debba necessariamente essere pervaso da abitudini mentali e condotte tipiche della cultura tecnologica. Ma siamo sicuri che questo modo di pensare sia davvero corretto? Certi eccessi in tal senso e i rischi a essi connessi sembrano sostenuti da alcune tendenze attualmente dominanti, nonché da un’intensa propaganda mediatica in questa direzione, che però potrebbe essere utile provare a smontare criticamente. Si è proposto di farlo, con indubbia competenza scientifica, ma anche con un’intelligenza acuta e spiazzante, Lorenzo Tomasin, professore di Filologia romanza e Storia della lingua italiana all’Università di Losanna (Svizzera), nel saggio L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia (Carocci, pagine 144, euro 12,00). Il libro si concentra in particolare sull’istruzione scolastica, sulla ricerca e sulle politiche dei governi in questi campi.

Professor Tomasin, in che senso possiamo dire che l’informatica è 'il latino del nuovo millennio'?

«La frase, che ricorre nel primo capitolo del libro, non è mia, ma di un illustre esponente della ricerca tecnologica, e attuale direttore di un politecnico federale svizzero: il rappresentante tipico di una nuova classe dirigente fatta di tecnici che, sprovvisti di una solida formazione nel campo della cultura umanistica (egli stesso, come molti suoi omologhi, ammette di non conoscere il latino; e ce ne sono altri che rivelano con orgoglio di non essere mai entrati in una biblioteca), tendono a esaltare la tecnologia e il suo ruolo nell’istruzione, nella società e nelle politiche culturali, attribuendole il ruolo centrale e vivificante svolto da sempre, almeno in Occidente, dalla cultura umanistica: una cultura che al centro non mette l’utilità concreta, ma la dignità dell’uomo. Di quella cultura, i nuovi tecnocrati percepiscono in qualche modo il fascino, ma ne equivocano la funzione e il valore, perché di fatto ne ignorano i contenuti e ne fraintendono il vero significato».

La tecnologia sta influenzando, oltre che la nostra vita quotidiana, anche l’insegnamento e la stessa cultura umanistica. Tra gli 'apocalittici' e gli 'integrati' lei sembra assumere una via mediana. Qual è la sua proposta, il suo approccio a questa problematica?

«Nessuna professione intellettuale e a fortiori nessuna attività di ricerca avanzata, può oggi fare a meno della tecnologia e dei mezzi che essa mette a disposizione. Rifiutare o disdegnare il necessario aggiornamento dei mezzi impiegati è assurdo, ma ciò non implica la necessità di stravolgere il fine del nostro lavoro. Né di trasformare i mezzi in fini, o peggio in padroni del campo. Nel caso della ricerca cosiddetta di base, l’impiego delle tecnologie non può condurre a cercare affannosamente ricadute applicative dei propri ritrovati, né può consistere nella riduzione dei contenuti culturali a inerti mezzi al servizio dello sviluppo di nuove tecnologie, magari concepite in funzione di un mero sfruttamento commerciale, oppure di una fruizione poco meno che ludica. Quindi, per rispondere alla sua domanda: la contrapposizione tra 'apoca-littici' e 'integrati', delineata nel secolo scorso, è oggi superata in un mondo che non può che dirsi necessariamente 'interconnesso', ma che proprio di questa interconnessione deve conoscere, assieme alle opportunità, anche i limiti e i rischi».

Lei in particolare non manca di notare i rischi di una tecnicizzazione a oltranza dei saperi e della loro trasmissione.

«Tali rischi sono già pienamente visibili nel discorso politico su istruzione e ricerca: un discorso che pare mettere al centro un modello, quello del tecnologo, unico vero ricercatore proteso verso l’unica vera forma di innovazione, che sta diventando un vero feticcio culturale. Per questa via, un fortunato acronimo come quello contenuto nella formula della Stem education (cioè l’istruzione fondata su scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, con le scienze ai margini e al centro le sovrane tecniche) assurge a modello insistentemente proposto dalle politiche di molti Stati. Per questa via, anche in Italia, il discorso pubblico sull’istruzione indulge colpevolmente, e sulla base di dati addomesticati dalla malafede, nella deplorazione pubblica di chi si dedica alle discipline umanistiche e nell’auspicio rivolto al sistema dell’istruzione a formare più laureati in discipline tecniche. Anziché cittadini migliori e più consapevoli. Quando poi simili discorsi piegano verso la proposta delle discipline tecnico-scientifiche come strumento di emancipazione opposto al modello culturale basato sulle scienze umane (evidentemente considerato retrivo perché poco remunerativo), si arriva a qualcosa di simile a un tentativo di pianificazione autoritaria delle coscienze».

Nell’attuale sistema di istruzione, a tutti i livelli, si insiste molto sulla necessità di 'digitalizzare' la didattica e l’apprendimento. È davvero questa la 'buona scuola'?

«Nel mio libro utilizzo un’immagine che può servire a rispondere a questa domanda. Quando nacque l’istruzione scolastica obbligatoria, portare i bambini a scuola significava strapparli ai campi o alle fabbriche, per mostrare loro un mondo e una realtà diversa da quella a cui li costringeva la loro condizione, aprendo loro la possibilità di passare il resto della vita altrove rispetto a un campo o a un’officina. Oggi portare a scuola i bambini significa (e ciò è tanto più vero, quanto più fragili sono le loro condizioni socioculturali di partenza) toglierli o distoglierli da un ambiente in cui schermi e display sono onnipresenti. In questa situazione, molti sono convinti che far trovare loro un tablet o un cellulare anche sul banco di scuola sia la cosa giusta. Ma forse qualcuno avrebbe pensato un tempo che sarebbe stato bene presentare loro una zappa anziché un libro?».

Un’altra immagine molto efficace del suo libro è quella della ' plastificazione culturale': ce la vuole illustrare?

«Con questa immagine ho provato a rispondere a chi parlando della cosiddetta rivoluzione tecnologica la paragona al mutamento epocale costituito dall’invenzione della stampa, che, assieme ad altre innovazioni tecniche, in un certo senso segnò il passaggio dal Medioevo all’età moderna. È evidentemente un paragone nobilitante, per bilanciare il quale si può però proporre un altro, e secondo me più calzante, parallelo storico. Anche l’invenzione della plastica ha segnato una svolta epocale, tanto che oggi non potremmo fare a meno di un materiale divenuto onnipresente e universalmente utile. Si dà il caso che abbastanza rapidamente ci siamo resi conto sia dell’universale utilità delle materie plastiche, sia del loro grave nocumento ambientale: se ciò non ha condotto né potrebbe condurre alla loro eliminazione, certo oggi nessuno ne esalterebbe incondizionatamente le proprietà. Ecco, trovo che l’avanzata delle tecnologie rappresenti qualcosa di simile a una plastificazione culturale, che potrà avere certo caratteri di utilità, di praticità e di concreto vantaggio. Ma che è pur sempre una plastificazione, e come tale, più che esaltata, va possibilmente controllata. Se non proprio ecologicamente contenuta e disciplinata».

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