venerdì 8 aprile 2022
Alle Scuderie del Quirinale (ma con un pendant nella città d’origine) un’ampia rassegna sul Seicento, quando la Repubblica era un porto anche dell’arte
Valerio Castello, “Diana e Atteone con Pan e Siringa”, 1650-1655

Valerio Castello, “Diana e Atteone con Pan e Siringa”, 1650-1655 - Scuderie del Quirinale

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Giocando sull’esuberanza dello stile che dominò il Seicento e sul suo nome mitico, Superba, alle Scuderie del Quirinale s’è aperta (fino al 3 luglio) una retrospettiva dell’arte a Genova “da Rubens a Magnasco”, a cura di tre esperti della materia: l’americano Jonathan Bober e gli italiani Piero Boccardo e Franco Boggero. Lì per lì, il titolo Superbarocco fa pensare a un gioco di marketing. In realtà il titolo è aderente al contenuto: sia perché si riferisce appunto alla Superba, sia in quanto ciò che ci mostra è superbo nella qualità e per lo spaccato artistico e storico che ci offre. Resta il fatto che il primo a chiamare Genova la Superba fu Petrarca che la elegge “signora del mare”. Ed è vero, perché la Repubblica era fin dal tempo delle crociate una delle potenze navali europee più ricche, con influenza commerciale, marittima e quindi politico-militare. Nel suo stemma figura, non a caso, la Croce di san Giorgio e il suo peso andava dall’Iraq all’Inghilterra, dalla Palestina alle Canarie, dominando il Mediterraneo e spingendosi fino al Mar Nero.

La mostra di Roma doveva avere il suo battesimo a Washington nel 2020, in collaborazione con la National Gallery, uno dei musei – non tantissimi al mondo – che hanno una degna campionatura del barocco genovese. Era già stampato il catalogo col titolo A Superb Baroque, ma questa pubblicazione è rimasta orfana della mostra quando il Covid ha costretto il museo americano, come molti altri, a rimandare le proprie programmazioni. Sembrava che a Washington volessero riprovarci alla fine del 2021, ma il persistere dei contagi ha fatto tramontare tutto e la mostra ora si può vedere alle Scuderie del Quirinale. Il catalogo, molto ben fatto, edito da Skira a cura dei tre studiosi che guidano l’esposizione, rispetto all’edizione americana conta un saggio in più e nelle schede ha mantenuto talvolta anche le immagini dei disegni che avrebbero dovuto essere esposti in America. Insomma, uno strumento essenziale perché questa rassegna è grande, è rara e fa il punto su una storia artistica ancora troppo poco indagata (pendant significativo, quasi un ponte con l’origine, sempre per la cura dei tre studiosi, si può vedere a Palazzo Ducale a Genova, col titolo La forma della meraviglia, fino al 10 luglio con catalogo, edito da Sagep, che si compone essenzialmente delle schede dedicate alle cinquanta opere esposte).

Questo accade storicamente perché la Repubblica, come scrivono i curatori, forse non ha mai spinto affinché si formasse uno stile dominante del proprio regime come accadeva di solito per le corti italiane: Genova è stata sempre, come nella sua realtà fisica e geografica, un porto dell’arte come lo fu di uomini, merci, scambi, capitali. La mostra presenta uno scenario artistico ampio: dalle argenterie alle grandi tele dei fiamminghi Rubens e Van Dyck, con importanti prestiti stranieri; dalla scultura, come lo splendido gruppo di Maragliano sul Battesimo di Cristo e il drammatico Ratto di Elena del francese Puget (che patì sempre la fama del Bernini, anche in patria), all’arazzo e a una campionatura di disegni; fino ai bozzetti – come quello del Gaulli – per grandi cicli di affreschi.

La ricca nobiltà genovese – i Doria, gli Spinola, i Pallavicino, i Balbi – tra il XVI e il XVII secolo esercitò un intenso mecenatismo facendo realizzare ville, cicli decorativi a esse riferiti, argenti – strepitoso il bacile con Il ratto delle sabine eseguito in Spagna da Mathias Melijn e conservato a Toledo, che ha realizzato anche quello sulla Partenza di Cristoforo Colombo da Palos, che fa parte degli arredi di Palazzo Spinola a Genova –, ma anche, nell’ambito architettonico, palazzi e chiese (alcuni destinati all’affitto, persino tra gli edifici religiosi) e, ovviamente, una quantità incalcolabile di dipinti che, come viene sottolineato, rendono il barocco genovese secondo solo a quello romano. Ma è un barocco «polivalente, mondano e transnazionale», perché mobile e aderente sul piano rappresentativo ai flussi mercantili e di denaro che produce l’economia genovese. Fu una delle economie finanziarie più attive in Europa, e proprio alla fine del secolo barocco i banchieri genovesi aprirono il mutuo fruttifero rivolto agli stranieri che – come ricorda Andrea Zanini in catalogo – prestava agli Asburgo come ai russi, dalla Francia del Re Sole ai Paesi scandinavi. Causa di crisi periodiche furono le disavventure militari ed economiche delle monarchie, come quella spagnola che tra il 1557 e il 1647 aveva fallito varie volte costringendo i banchieri genovesi a reinvestire sul debito pubblico genovese, in quello della Repubblica di Venezia, nel Ducato di Milano e nello Stato pontificio.

Un colpo gravissimo ricevette la città nei due anni della pestilenza tra il 1656 e il 1657, che sterminò tre quarti della popolazione. Quando nell’ultimo quarto del Seicento vi fu la ripresa, anche per le relazioni stabilite con gli ottomani, cominciarono gli attriti con la Francia, finché Luigi XIV nel 1684 ordinò a Colbert di attaccare e bombardare Genova distruggendo migliaia di edifici pubblici e privati. L’anno dopo venne firmato il trattato di Versailles nel quale Genova s’impegnò a mantenere una rigorosa neutralità nella politica internazionale e il doge fu obbligato a inchinarsi al Re Sole come atto riparatorio. Questa umiliazione da parte di una Repubblica indipendente costretta a pagare anche i costi di ricostruzione, finì tuttavia per dare nuove chance nelle relazioni fra Parigi e Genova, così che i banchieri praticavano i mutui a tasso fisso in valuta genovese. Il momento d’oro, però, era ormai quasi alle spalle.

La ricchezza che attraversa, con alti e bassi, tutto il Seicento, toccando vertici di opulenza, alimenta tramite i committenti un’arte che si tramanda anche fra famiglie di artisti locali (all’epoca se ne contavano, come scrivono Boccardo e Boggero in base ai documenti fiscali della Repubblica, ben 140, molti oggi sconosciuti), rendendo più difficile stabilire le mani. Tuttavia, se non esiste uno stile che sia soltanto genovese, la città diventa momento d’approdo di artisti che vengono da fuori (oltre ai già citati Rubens, Van Dyck, Puget, Melijn, Simon Vouet, anche Giulio Cesare Procaccini, Francesco Solimena, Orazio Gentileschi), ovvero un punto di partenza verso l’esterno di genovesi come Giovan Battista Paggi, Bernardo Strozzi, Domenico Fiasella, il più ricercato all’epoca, Filippo Parodi, il Grechetto, il più sulfureo e vitale fra tutti i genovesi (si vedano oltre ai grandi quadri allegorici su Noè e Diogene, i disegni pieni d’impeto e di forza espressiva quasi surreale), e il Gaulli, fino all’esperienza milanese di Alessandro Magnasco.

Sono riconducibili, chi più chi meno, all’influenza della pittura fiamminga da un lato, con una nuova attenzione alla natura morta e ai soggetti di genere (vedi Scorza e Vassallo), e dall’altro al classicismo, che risente anche di Poussin, e al naturalismo che viene da Caravaggio (l’ultima sua tela, il Martirio di sant’Orsola oggi a Napoli, era stato acquistato da Marco Antonio Doria) o dagli emiliani come Guido Reni che lasciò a Genova l’Assunzione della Vergine. Resta da approfondire come già nei primi decenni del Seicento il Barocco genovese contemplasse ancora soluzioni manieriste. A questo proposito Jonathan Bober annota: «Il Manierismo perdurava, continuando a generare ibridi e convivendo con le formulazioni più radicali ». Ma c’è da chiedersi se questo non sia proprio l’animo genovese di un Barocco che è appunto polivalente ed esposto a quella mutevolezza saturnina che rimescola la memoria del passato con l’immaginazione del futuro.

Tra i genovesi che lasciano un segno di notevole importanza troviamo Lazzaro Tavarone, allievo di Luca Cambiaso, che si specializzò nel-l’affresco, Valerio Castello, Gioacchino Assereto, molto richiesto per i suoi “quadri da stanza”, Domenico Piola, Bartolomeo Guidobono e il grandissimo Gregorio De Ferrari le cui «idee geniali e originalissime» nell’affresco non sono da meno negli argenti, nella scultura o nell’arredo, come sottolineano i curatori. La stanza dei Magnasco conclude una mostra dove molti pittori ad alcuni spettatori risulteranno poco o per nulla noti, ma si deve invece constatare la tenuta della qualità dove questa numerosa squadra di artisti ha saputo, credo, incarnare un genius loci che non è tanto nel singolo quanto nella mobilità del sentire e dell’esprimere in una varietà di linguaggi e modi l’essere genovesi, gente di mare e di terra ferma al tempo stesso, che le colline e le montagne racchiudono come una larga enclave dell’arte.

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