venerdì 15 ottobre 2010
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Storia da non dimenticare quella raccontata in queste pagine. Quella, buia, del virus misterioso che, nel secolo scorso, ha scatenato epidemie mortali in Africa. E, in filigrana, quella, luminosa, di sei missionarie, vittime del contagio, morte una dopo l’altra in poco più di un mese, quindici anni fa. Una storia di morte, che può leggersi come dono della vita; di incubo e sofferenza, ma anche di amore e di grazia. Con dei nomi precisi. Da una parte il nome Ebola, sorta di peste del Duemila (ma se ne parlava già durante la seconda guerra mondiale quando a esserne contagiati furono militari italiani), così chiamata dall’omonimo fiume, sulle cui rive si verificarono i primi casi ben riconosciuti, nel ’76, ai confini fra il  Centroafrica e il Congo-ex Zaire  là dove è riapparso nel 1995. Dall’altra parte i nomi delle sei suore italiane delle Poverelle – congregazione religiosa fondata dal beato Luigi Maria Palazzolo – rimaste nell’avamposto della loro missione africana nonostante la condanna dentro quella scelta: Floralba Rondi, Clarangela Ghilardi, Danielangela Sorti,  Dinarosa Belleri, Annelvira Ossoli, Vitarosa Zorza. Sei donne che avrebbero potuto riparare in Italia finché fosse passato il rischio di contagio e che invece scelsero semplicemente di restare; che nonostante la consapevolezza della gravità della situazione preferirono continuare a impegnarsi – in sala operatoria, nei reparti dell’ospedale, al capezzale dei malati – per chiunque lì avesse bisogno: fino all’ultimi respiro.Una morte – fra il 25 aprile e il 28 maggio del 1995 – che finì per accomunarle in un martirio della carità. Quella carità che le aveva spinte, giovanissime, da Bergamo e da Brescia, in Africa, per vivere «avvolte tra i poveri» (come raccomandava il loro fondatore nella Bergamo di metà Ottocento). E ad approdare ai poveri di Kikwit (popolatissima diocesi suffraganea di Kinshasa), là dove oggi «sono sepolte tra i poveri, con segni poveri, ...tra fiori di campo e una piccola croce di legno», come racconta don Arturo Bellini. È lui, questo sacerdote bergamasco reduce da una visita in Congo alle Poverelle, ad aprire un bel volume dedicato a questa vicenda, e a spiegarci che «le storie di queste religiose sono pagine di Vangelo scritte per noi, pagine vive e concrete che raccontano il mistero di Dio nel pane buono per ognuno che ha fame, nella parola di consolazione per ognuno che è solo, nelle mani che si prendono cura di ognuno che soffre nel corpo e nello spirito». Il libro è stato scritto dal giornalista Paolo Aresi che dal quadro apocalittico – che pure ha ispirato racconti cinematografici e letterari – riesce qui a sbalzare a tutto tondo i profili di queste testimoni del Vangelo – attingendo anche alle loro lettere e ai loro appunti, oltre che alle testimonianze i alcune consorelle. (L’Ultimo dono, Queriniana, pagine 136, euro 12,50). Vi leggiamo frasi come: «Con Maria ai piedi della croce vogliamo ravvivare la nostra fede e ripetere con Gesù e con Maria, con tutte le sorelle, con la Madre generale il Fiat, certe che Lui sa tutto ed è con noi anche in questa durissima prova» (suor Annelvira). Oppure: «La mia missione è quella di servire i poveri! Cosa ha fatto il mio fondatore? Io sono qui per seguire le sue orme...» (suor Dinarosa).O ancora: «Aprimi interamente al tuo amore, Padre, ponimi accanto ai miei fratelli libera, accogliente, felice, povera tra i poveri, come una goccia d’acqua, sperduta nell’oceano immenso del tuo amore» (suor Clarangela). Vi scopriamo parole che specchiano l’operosità di  chi vuole «seminare la misericordia del Signore» (suor Floralba), nella certezza di riconoscere i doni di Dio comunque si manifestino: «Posso dire che ho ricevuto tanto da loro (i miei poveri), soprattutto la serenità e la capacità di sopportazione. Loro accettano tutto dalla mano di Dio» (suor Vitarosa). Mentre non si spegne l’eco dell’invito alle consorelle fatto da suor Danielangela, negli ultimi giorni della sua vita. Diceva che, sì, «non sappiamo né l’ora né il giorno in cui il Signore ci può chiamare», ma che occorre sempre «restare nella gioia»: «perché amore chiama amore».
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