sabato 30 aprile 2016
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Quando è questione di vita o di morte tutto conta, perfino le virgole. Hands off Cain!, “nessuno tocchi Caino!”, è diverso da Hands off, Cain!, “giù le mani, Caino!”. Potrebbe essere una svista, d’accordo, ma è la seconda versione a fare la sua comparsa in un passaggio particolarmente delicato di Caino e Abele, il sorprendente – e a tratti sconcertante – saggio con il quale il giurista e magistrato Nicolò Amato si propone di riaprire il dibattito sulla pena di morte. Più che un’arringa a favore del patibolo, è una requisitoria contro la «retorica» – così la definisce Amato – dell’abolizionismo senza se e senza ma. E già questa è una scelta inconsueta, perché se c’è un argomento che davvero non sembra tollerare sfumature è questo della pena di morte. L’autore, come ormai si sarà compreso, è di diverso parere. Ed è un parere comunque impegnativo, considerato il ruolo che Amato ha svolto in molti momenti cruciali della nostra storia recente (ha a lungo diretto il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ed è stato, tra l’altro, il pubblico ministero del processo Moro e di quello per l’attentato a Giovanni Paolo II). Come in altri suoi libri, anche in Caino e Abele Amato inserisce nel ragionamento giuridico osservazioni di più ampia portata, che qui si spingono a indagare la natura del Male assoluto. La pena di morte non può essere applicata indiscriminatamente, afferma Amato riferendosi in particolare ai Paesi nei quali vige la sharia islamica. Eppure, insiste, possono esserci casi in cui non si dà alternativa. Al cospetto dei cosiddetti «Mostri» – assassini e stupratori seriali, torturatori, sfruttatori eccetera – la pena di morte si rivelerebbe addirittura “ragionevole”, stante il carattere “irragionevole” delle motivazioni messe in campo dagli abolizionisti. Amato non recepisce l’obiezione illuministica per cui il cittadino non ha conferito allo Stato un potere di vita o di morte: alla stessa stregua, ribatte, si potrebbe affermare che lo Stato non dispone neppure del diritto di imprigionare, tanto meno di comminare l’ergastolo. Ma anche l’argomento della sacralità della vita è tacciato di debolezza da Amato, che in più di un’occasione cita in modo incompleto il n. 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica, dove vige sì il richiamo all’«insegnamento tradizionale» che non esclude a priori la pena di morte, ma dove si dichiara anche con forza che, nel contesto attuale, «i casi di assoluta necessità di soppressione del reo “sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti”». A risultare poco convincente, però, è la pretesa di affidarsi al medesimo principio di autoevidenza (un Mostro è un Mostro) che lo stesso Amato contesta altrove. E questo non è più un problema di punteggiatura. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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