domenica 29 dicembre 2019
Parla la direttrice di Radio Bakhita, l’emittente diocesana di Juba: «Diamo voce alle minoranze e a chi lotta per i diritti umani. La guerra civile è un argomento tabù»
Josephine Achiro Fortelo

Josephine Achiro Fortelo

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La voce dei diritti umani d’Africa parla in modulazione di frequenza dalla radio diocesana di Juba, capitale del martoriato Sud Sudan. Le minacce non sono riuscita a ridurla al silenzio. E di minacce Josephine Achiro Fortelo, nonostante abbia poco più di 30 anni, ne ha ricevute parecchie anche direttamente nel suo ufficio. Parla di pace da costruire, di diritti umani, incoraggia le minoranze a partecipare e informa i profughi fuggiti in massa in Uganda e che vogliono tornare.

Nel 2006 la diocesi di Juba, capitale della repubblica sud sudanese proclamatasi indipendente nel 2011, ha fondato Radio Bakhita, dedicata alla prima santa locale. La stazione, creata con il contributo delle comboniane, oltre a promuovere l’evangelizzazione ha il compito di fare comunicazione per la pace. E poiché nel nuovo Stato la guerra civile si è riproposta nel 2013 provocando 400mila morti, il suo compito è strategico.

Nel settembre del 2018 le parti in conflitto hanno firmato un accordo finora inapplicato. Nel messaggio speciale di Santo Stefano il Papa ha ricordato il Sud Sudan e ribadito il desiderio di visitarlo appena possibile. Visto che il tasso di analfabetismo sfiora il 40%, la radio comunitaria è un media cruciale. Josephine ha cominciato come conduttrice poi è diventata direttrice del network radiofonico cattolico del quale fa parte Radio Bakhita e responsabile dei contenuti.

In parallelo al suo impegno civile ha iniziato a battersi per la libertà di stampa in un Paese dove la democrazia è in costruzione e il mestiere del giornalista molto rischioso. Un anno fa ha ricevuto dalla radio pubblica tedesca il premio Johann Philipp Palm per la libertà di parola e di stampa. Attualmente ricopre incarichi dirigenziali in vari progetti per potenziare e rafforzare le stazioni radio locali e promuovere la pace. È inoltre amministratore delegato della rete radiofonica per cittadini sostenuta dall’Unesco “Com-Net South Sudan”.

Ogni giorno deva affrontare grandi difficoltà per andare in onda, dal reperire energia a trovare donatori per finanziare i programmi. «Ringrazio Dio – afferma – perché molti di noi sono ancora vivi. Il Sud Sudan non è un paese amico dei media, ma dalla firma degli accordi di pace non abbiamo più avuto notizie di arresti di giornalisti. Certo possono sempre inti- midirti o rimuovere gli articoli prima della stampa. Ma avviene meno di frequente. Non possiamo dire che la gente non venga uccisa ma ci sono killer che lo fanno di nascosto, così che nessuno possa stabilire se l’omicidio di un giornalista fosse o meno premeditato».

Quando ha cominciato?

«Non sono una giornalista professionista. Mi sono formata e lo sono diventata sul campo. Ho cominciato a lavorare a Radio Bakhita agli inizi del 2007 e non sognavo di diventare giornalista. Mi ha fatto cambiare idea il mio direttore di allora, suor Cecilia, la prima a dirigere la radio. È stata lei a mandarmi al corso di formazione di base del network delle radio cattoliche e da quel momento ho avuto l’opportunità di frequentare i corsi di perfezionamento, di fare tirocini e di arrivare ad amare questo lavoro».

Che lavoro faceva a radio Bakhita prima di diventarne coordinatrice?

«Quando lavoravo a Radio Bakhita e con il network di radio cattoliche conducevo un programma che avevamo chiamato di educazione alla cittadinanza e un altro sulle donne impegnate per la pace e i loro diritti. In questi programmi affrontavo le grandi questioni che affIiggono le nostre comunità e promuovevo la coesistenza pacifica. Parlavamo di argomenti tabù come il voto e lo sfollamento e chiedevamo con forza i diritti umani incoraggiando le minoranze a esprimersi. Poiché buona parte della popolazione del mio paese non è in grado di leggere, l’uso della radio come mezzo di informazione, nonostante la diffusione degli smartphone e dei social, resta strategico. Il significato di questo lavoro per la democrazia e il processo di pace nel Sud Sudan non può essere sottovalutato. Il nostro dovere è metterci al servizio della nostra gente offrendo loro l’informazione di cui hanno bisogno. Siamo stati apprezzati e siamo andati avanti».

E ha avuto problemi con il governo per quello che diceva in trasmissione?

«Onestamente non ho avuto grandi problemi con il governo per il mio lavoro di conduttrice. Piuttosto in Sud Sudan oggi è il parlare di pace che è pericoloso, quasi un suicidio».

Per quale motivo?

«Perché prima di parlare di pace c’è bisogno di spiegare le cause del conflitto e questo è pericoloso. I politici vengono citati acriticamente, non si cerca la notizia tra le righe. E quindi parlare di pace nelle comunità è molto pericoloso, ma non ho mai pensato di cambiare lavoro. Non cerco alternative»..

Oggi è ancora attaccata e in pericolo?

«Prima ero più minacciata. Ora va un po’ meglio perché mi occupo soprattutto della formazione dei giovani citizen journalists, i cittadini giornalisti. Sono parte delle comunità e fanno altri lavori. Sono insegnanti, agricoltori o leader di comunità. Io fornisco loro le basi del giornalismo così che possano mandarci notizie e alimentare le radio di comunità del nostro network. Il nostro è un paese molto complesso a causa anzitutto dei problemi di mobilità che impediscono ai giornalisti professionisti di arrivare ovunque. Così crediamo che sia importante formare cittadini giornalisti per fare arrivare informazioni da qualunque punto in cui il segnale radio arrivi».

Qual è il suo impegno per la libertà di espressione?

«Come volontaria in gruppi di pressione di organizzazioni di media mi batto per l’accesso alle notizie la libertà di espressione. La libertà di parola e di stampa sono il prerequisito indispensabile per la democrazia».

Cosa la spinge a continuare?

«Questo è un paese con molte divisioni e persone traumatizzate dalla guerra civile. Dobbiamo trovare sempre nuovi mezzi per spezzare il circolo della violenza. Abbiamo bisogno di parlare una sola lingua, quella dell’unità».

Parla Josephine Achiro Fortelo, direttrice di Radio Bakhita, l’emittente diocesana di Juba: «Diamo voce alle minoranze e a chi lotta per i diritti umani. Oggi essere giornalisti qui è meno pericoloso di un tempo ma parlare di rappacificazione ti mette a rischio perché significa rendere esplicite le ragioni del conflitto» La giornalista sudsudanese Josephine Achiro Fortelo, direttrice di Radio Bakhita, emittente radiofonica della diocesi di Juba

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