venerdì 16 ottobre 2015
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«Se non avessi fatto il calciatore magari diventavo un macellaio come i miei genitori. Io sono nato per “spaccare” le scarpe da calcio». Parola di Luisito Suárez. Quasi un decennio di Inter in campo e ultima panchina da allenatore ad interim nella stagione 1995-1996 in sostituzione di Ottavio Bianchi. Poi la bandiera Suárez è stata lentamente ammainata ad Appiano Gentile. Oggi nell’Inter di Thohir per lui non c’è più posto, così da “giovane ottantenne” è tornato a lavorare solo per il calcio spagnolo. «La Liga è da un po’ che mi diverte molto più della Serie A. Quest’anno non ho ancora messo piede a San Siro. Faccio l’osservatore per il Barcellona, all’Inter probabilmente non serve uno che dia una mano e un consiglio, anche gratis...», sorride, sempre ironico e tagliente.Ma siamo sicuri che la nuova proprietà dell’Inter sappia chi è Suárez?«No che non lo sanno, a loro la storia mica interessa. Questi nuovi imprenditori, russi, indonesiani, americani, vengono in Italia illudendosi di fare business con il calcio. Per ora più che guadagnarci mi pare che hanno fatto perdere alle società italiane, e quindi anche ai tifosi, il senso di appartenenza. L’Inter dei Moratti era un’altra storia».Meglio il Barcellona, dove addirittura sono i tifosi che scelgono il loro presidente con tanto di votazioni?«Non a caso si dice “Barcelona més que un club”, molto più di un club. Una società di calcio dovrebbe essere di proprietà prima di tutto della gente, dei tifosi. Al Barcellona ogni socio si sente responsabile dei successi e dei problemi della società. Noi come ex glorie del Barça sosteniamo economicamente i vecchi compagni in difficoltà e le loro famiglie».Ma si sente più amato in Spagna o in Italia?«Il ricordo più bello e ancora vivo resiste qui a Milano e nei tifosi interisti, perché trasformammo una squadra e una società normale nella più forte del mondo. A Barcellona ho vinto un Pallone d’oro, ma dopo di me è arrivato Messi che se ne è presi quattro».In questi anni ha visto un altro Luisito in campo?«Considerando che il mio ruolo era quello del “ragionatore” puro, forse, per visione di gioco e capacità di lancio quando è diventato un regista davanti alla difesa direi senz’altro Andrea Pirlo. Serio, pulito, vincente come il sottoscritto».Si dice che Mourinho sia l’Helenio Herrera del Terzo millennio: condivide?«Sono due carismatici, due grandi motivatori, ma Herrera è stato un innovatore e Mourinho, nononostante il “triplete” vinto all’Inter, non lo è».Chi è stata la sua bestia nera da calciatore?«Angelo Lodetti. Che derby contro di lui: era un “cagnaccio” veloce, grintoso, ma sempre leale, uno che non mollava mai e mi impediva di dominare a centrocampo. Poi per fortuna alla Samp giocavamo assieme».Nell’Inter di oggi un Luisito forse non c’è...«Ci sono tanti buoni giocatori, ma manca un fuoriclasse, specie in mezzo al campo. Forse quel Yaya Touré del Manchester City avrebbe in parte colmato questo vuoto. Inter da scudetto? Mancini sta facendo bene, la Juve non è più imbattibile e il livello quest’anno si è un po’ abbassato, per cui c’è speranza un po’ per tante, Inter compresa».Dica la verità, ha mai pianto per il calcio?«Mai, ho solo provato un gran dispiacere quando ho smesso di giocare. E confesso che ancora oggi quando guardo una partita provo un po’ di nostalgia. Vorrei prendere una “pasticca” per ringiovanire di cinquant’anni e scendere ancora in campo. Ai giovani di oggi, che hanno avuto il dono di saper giocare a calcio, dico di viverlo fino all’ultimo istante della loro carriera con gioia e con orgoglio, come ho fatto io».
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