giovedì 10 dicembre 2015
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Diceva Eschilo che la verità è la prima vittima della guerra. Il grande drammaturgo classico, uno dei padri della tragedia greca, sembra aver ispirato almeno indirettamente una delle opere contemporanee che indagano più a fondo la natura dell’animo umano nel tentativo di comprendere la psicologia dell’ultimo conflitto nei Balcani. L’indagine letteraria costruita dal grande scrittore serbo Saša Stojanovic nel suo capolavoro, il romanzo Var – appena portato in Italia dalla coraggiosa casa editrice romana Ensemble, con l’ottima traduzione di Anita Vuco – ha riscosso un successo straordinario in tutti i paesi nei quali è stata finora proposta. A cominciare dalla Repubblica Ceca, dove ha gareggiato fino all’ultimo con Il Cimitero di Praga di Umberto Eco come miglior libro dell’anno.La sua è una voce spietata di denuncia dei crimini commessi dal regime serbo, dell’uso e dell’abuso della guerra nel suo paese come in ogni altra parte del mondo. Il romanzo ha una struttura complessa sviluppata attraverso una raffinata metafora, che vede scendere sulla Terra i quattro evangelisti canonici Marco, Matteo, Luca e Giovanni insieme agli apocrifi Giuda e Maria Maddalena per cercare di stabilire la verità sulla guerra in Kosovo. Attraverso un mosaico composto da trenta dichiarazioni, i sei indagano su Carli, un infermiere di guerra che altri non è se non l’alter ego dello scrittore, che ai tempi di Miloševic fu realmente incarcerato tra gli oppositori del regime. Una dopo l’altra, con continue variazioni di stile, si susseguono una pluralità di voci narranti, ciascuna delle quali presenta una fitta rete di allusioni ai capolavori della letteratura occidentale, ai classici russi e ai grandi scrittori serbi del passato come Danilo Kiš e Ivo Andric, ai quali Stojanovic viene oggi accostato da molti. Tutto è funzionale a rappresentare l’assurdità e la ferocia degli eventi, la paura e l’egoismo, ma anche l’amore e la speranza. Fino a farci capire che il compito degli evangelisti non può essere portato a termine perché in quella guerra – forse in nessuna guerra – esiste più la verità. Originario dell’area più derelitta della Serbia meridionale, una zona caratterizzata da povertà, disoccupazione ed emigrazione, Stojanovic ci guida in quell’inferno in Terra che è stato il conflitto balcanico con una lingua dura, a tratti spiazzante, e racconta l’orrore e la follia del conflitto con una scrittura profondamente autobiografica.«Ho preso parte anch’io a quella guerra come infermiere – ci racconta – e mi sono ritirato una settimana prima che finisse quando mi fu diagnosticato un disturbo da stress post traumatico. All’epoca mi proibirono di parlare di quei fatti, ma non di scriverne». La stesura di Var è stata per lui un processo catartico che ha accompagnato la sua vita per nove lunghi anni, al termine dei quali dice di essersi convinto del potere salvifico della letteratura. «Questo lavoro è iniziato come una sorta di autoterapia e si è poi trasformato gradualmente in una scoperta di me stesso. Credo che la letteratura possa contribuire alla scoperta delle caratteristiche divine dell’uomo, che sono ben nascoste. A prima vista affiora soltanto il male ma scavando nel profondo dell’anima si possono sempre trovare l’amore, la speranza e la fede, quelle caratteristiche e quei valori che ci rendono umani. In questo senso penso che la letteratura sia indispensabile all’uomo, e serva a fargli trovare una via d’uscita quando ha perso la speranza».Dopo una guerra vissuta in prima persona alla quale è seguito un lungo viaggio interiore, Stojanovic sostiene che ci sia ancora spazio per la riconciliazione tra i popoli dell’ex Jugoslavia. «I Balcani sono da sempre noti come il luogo dove vengono allevate le piccole differenze, molti sostengono che non vi sia spazio per la convivenza tra tanti popoli. Io credo invece che siamo talmente simili che non possiamo che vivere gli uni accanto agli altri. Odiavamo i nostri vicini perché in loro vedevamo rispecchiati i nostri difetti. Invece la letteratura potrebbe agire come uno specchio anche in un altro senso, mostrandoci nei nostri vicini quello che ci piace di noi stessi, facendo quindi nascere in noi non un sentimento di odio, ma di amore». Da agnostico, Stojanovic sostiene che l’arte sia una strada verso il Signore, che lui ha voluto percorrere attraverso un viaggio «costellato da dubbi e incertezze». In fondo, osservava George Bernard Shaw, le opere d’arte servono proprio a quello: a guardare la propria anima.
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