mercoledì 18 dicembre 2013
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Dimenticate lo showbiz , lo sport stellare di certi “pascià”, e pure quello legato a doping, scommesse e altri scampoli di negatività che purtroppo non mancano mai, concentrando invece le attenzioni sul significato reale del termine, quel “sorpassato” motto olimpico dell’«importante è partecipare, non vincere». È lo spunto offerto dalla consegna delle benemerenze sportive di fine anno, appuntamento che il Coni, e i suoi Comitati regionali, dedica a chi ha fatto dello sport una ragione di vita senza pensare al portafogli. A chi è nato per lo sport a prescindere, atleta, dirigente o allenatore poco importa, per tacere del fatto che in certe occasioni diventa fondamentale perfino la figura dell’accompagnatore, basti pensare a qualche disciplina paralimpica. Benemerenze, ovvero onorificenze pronte a riverire i “gregari”. Gente che in cambio di nulla, spesso neanche d’una pacca sulla spalla, una menzione o un trafiletto sul giornale di quartiere, si prodiga per fare in modo che la macchina vada avanti. Sempre. Contro tutto e tutti, scavalcando pregiudizi e burocrazia. Uomini e donne capaci di svolgere una funzione sociale indispensabile ma che non sta scritta sugli statuti né viene dibattuta nei consigli federali; imprescindibile per chi è convinto che lo sport sia davvero “Citius! Altius! Fortius!”, ma mai apprezzata fino in fondo. Perché chi riceve la benemerenza a volte è perfino lo sconosciuto vicino di pianerottolo che lavora dietro le quinte senza bisogno di urlare che «lui fa», o ancor peggio, che «lui è». È il “comprimario” che nessuno s’aspetta, è l’estremo surrogato del dilettante che non percepisce stipendio né indennizzo. È quel personaggio che non ostenterà mai la frase «io amo il mio sport» e, poi, se si va a scandagliare il sommerso, quelli che la strillano sono sempre pronti a fare la fila (se non a scavalcarla) per avere un rimborso spese, a volte persino irrisorio. Il benemerito è chi lavora dieci, venti, cinquant’anni senza pretendere nulla e che forse un giorno verrà chiamato per ricevere una spilletta da apporre sul bavero della giacca: un simbolo di cui andare fieri, non certo da ostentare. Così, l’occasione offerta in questo caso dal Coni Lazio a Roma, presenti i presidente di Coni, Giovanni Malagò, Cip, Luca Pancalli, e Coni Lazio, Riccardo Viola, ha portato alla ribalta 86 di questi «artisti dello sport», dove la parola artisti racchiude le voci “naif”, semplicità e abnegazione. Come nel caso di Bruno Morace, dirigente della pallavolo romana, 94 anni («ma da compiere», sottolinea in fase di premiazione), uno che rappresenta passato, presente e anche il futuro di uno sport che lo stesso Morace ha vissuto per oltre 80 anni. Ma scordatevi l’attempato dirigente e immaginate il “nostro” novantatreenne sveglio di mente e pronto a confidarci di aver discusso con i figli che qualche mese fa gli hanno tolto il motorino. Gente da focalizzare con attenzione come Nereo Benussi, che ha creato l’associazione “Salviamo lo sport dilettantistico”, quasi ad anticipare i tempi di quella cinghia che quando viene stretta per le conclamate crisi economiche, va sempre a intaccare le fasce più deboli e in questo caso lo sport amatoriale, da non confondere comunque con lo sport di base, anch’esso sempre e comunque in prima fila quando si impongono sacrifici. O, ancora, quelli del rugby a Civita Castellana, che da cinquant’anni giocano con la palla ovale e danno vita al terzo tempo. Due le annotazioni: l’idea di Riccardo Viola di dare spazio nel d-day delle benemerenze anche agli ex presidenti provinciali del Coni, i cui enti sono stati cancellati con l’autoriforma che ha cancellato gli stessi comitati locali a gennaio, quasi a significare, come ha spiegato lo stesso Viola «che guardiamo al futuro, ma non vogliamo dimenticare ciò che di buono è stato fatto in passato». E la promessa di Malagò: «Dopo Sochi il Coni riprenderà il vecchio marchio». Perché in certi ambiti, il passato non si dimentica.
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