mercoledì 7 ottobre 2015
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Una piscina olimpica, dove si allena la squadra nazionale britannica, due centri di ginnastica e di atletica, al top nel mondo, e campi da rugby, hockey e cricket per formazioni che competono nelle prime divisioni. Loughborough, università nel cuore d’Inghilterra, vuol dire lo sport migliore nel Regno Unito e il meglio al mondo dopo quello americano. Hanno studiato qui lord Sebastian Coe, la campionessa del mondo di maratona Paula Radcliffe, l’atleta Tanni Grey-Thompson, malata di spina bifida, che ha vinto il maggior numero di medaglie nelle ultime Paralimpiadi, il vincitore della Coppa del mondo di rugby 2003 Clive Woodward e Laura Unsworth e Hannah MacLeod, medaglie di bronzo alle Olimpiadi di Londra per l’hockey.Usano le strutture del campus le formazioni nazionali di atletica, triathlon e ginnastica e i nomi degli atleti fanno bella mostra su foto disseminate tra una facoltà e l’altra. «Siamo di gran lunga superiori a tutti gli altri atenei britannici come dimostrano le statistiche di “Bucs”, ovvero “British universities and colleges sport”, l’ente che organizza partite e competizioni fra i vari college e atenei del Regno Unito», spiega il professor Alan Bairner sociologo dello sport. «Negli ultimi trentacinque anni Loughborough è stata il campione in ogni disciplina, praticamente imbattibile, grazie alla capacità di eccellere in un sacco di sport diversi».«Superiamo di un bel po’ Birmingham e Bath, gli altri atenei che, come noi, puntano a vincere in ogni sport. Oxford e Cambridge, ormai da diversi anni, si concentrano sulla preparazione accademica, lasciando da parte le gare di sport, troppo costose da organizzare, se si fa eccezione per la famosa regata di canottaggio remata, però, da professionisti non da studenti», dice ancora Bairner. Dei sedicimila studenti su questo campus la metà fa un’ora o due di sport al giorno. Il minimo necessario per reggere la competizione se vogliono entrare nelle varie squadre che andranno poi a competere in tutto il paese. Le lezioni vengono addirittura sospese, il mercoledì pomeriggio, come accade, d’altra parte, nel resto del Regno Unito, per lasciare spazio all’esercizio fisico. Agli studenti che si laureano in sport viene consentito di raddoppiare il tempo per raggiungere la laurea, da tre a quattro, cinque o anche sei anni così che si possano dedicare agli allenamenti e alle gare internazionali. Attenzione, però, lo sport, qui, viene dopo lo studio. «Il criterio di ammissione all’università è il voto di maturità che, in inglese, si chiama “A level”», continua il professor Bairner: «Se uno studente è bravissimo, in uno sport, ma non ha il numero di “A level” necessari, col voto giusto, non gli offriamo un posto perché vogliamo preservare l’alto livello accademico dell’ateneo».Per ritrovare le radici di tanta eccellenza bisogna ritornare alla metà del diciannovesimo secolo, nel punto di massima potenza dell’impero britannico. Si formavano, allora, nelle scuole superiori private di Eton, Rugby e Harrow le élite che avrebbero civilizzato, secondo l’ideologia coloniale, il resto del mondo. Si diffuse allora la convinzione, definita sui libri di storia “muscular christianity”, ovvero «cristianesimo muscolare», che lo sport formi il carattere morale soprattutto dei maschi. Curare il proprio corpo, evitando l’alcol e le droghe, esercitarsi con disciplina, collaborare in una squadra avrebbe garantito i valori cristiani più importanti pensavano i presidi. L’idea passò dal protestantesimo al cattolicesimo, e conquistò anche le scuole private cattoliche di Ampleforth e Stoneyhurst, la prima gestita dai Benedettini, la seconda dai Gesuiti. Allora come oggi i college dei ricchi competono nelle diverse discipline sportive – si tratti di rugby, hockey, vela o tennis – lasciando alle scuole di stato l’educazione fisica. Dalle scuole private lo sport arrivò alle università. Prima a Oxford e Cambridge e poi negli altri atenei del Regno Unito.«Per le classi medio alte, ancora oggi, l’istruzione non è completa senza lo sport», continua il professor Bairner: «E sono soltanto le scuole private più costose, Wellington e Marlborough, che possono permettersi le strutture sportive migliori e gli allenatori più preparati». Viene preparata qui una buona parte del medagliere britannico come hanno dimostrato le Olimpiadi di Pechino e Londra. Tra il 40 e il 45% dei vincitori delle medaglie “made in Britain” provenivano dalle scuole private che istruiscono, però, soltanto il 7% della popolazione, ovvero le élite delle élite.Insomma la divisione in classi che forma, da sempre, la società del Regno Unito si riproduce anche nel mondo dello sport. «Il canottaggio, per esempio, è un’esclusiva dei ricchi», spiega il professor Bairner: «Perché è costoso da praticare e non paga molto bene, proprio come la vela, mentre il calcio e la boxe, che possono diventare una via d’uscita dalla povertà, sono facili da organizzare. Un campo da football non costa molto e si può riempire di giocatori, così come una palestra di aspiranti pugili, mentre una canoa o una barca a vela sono care ed ospitano poche persone. Per non parlare della necessità di trovare un lago o un mare sul quale remare». Insomma alle scuole pubbliche toccano due ore di educazione fisica alla settimana e, nelle ore extrascolastiche, club di calcio o di boxe mentre negli istituti privati si gioca a tennis, si fa atletica e vela e lo sport è parte integrante del programma.«Il nostro approccio, però, resta molto diverso da quello americano. Gli atenei Usa accettano studenti bravissimi al pallone o al basket, anche se non vanno bene a scuola, perché formano squadre forti che competono in partite alle quali partecipano anche ottantamila spettatori che sono una fonte di guadagno importante per l’università. Molti di questi studenti finiscono per non laurearsi, ma alle loro università non importa. Per noi, invece, il programma di studi rimane prioritario e lo sport è solo un’attività complementare».<+RIPRODUZ_RIS>
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