lunedì 27 luglio 2009
Le grandi industrie, ma anche le piccole e medie imprese considerano ancora utile investire nei club. Ma l’incremento dei finanziatori non va di pari passo con i budget, in cui la quantità di denaro messa a disposizione delle squadre è rimasta praticamente invariata.
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Questa grande oasi chiamata Sport. I venti di tempesta della crisi economica è naturale che siano arrivati anche davanti ai cancelli degli stadi e all’ingresso dei palazzetti italiani, ma la corrente che spira consente ancora alle società di stare a galla. «Gli sponsor non sono scappati dal Milan, anzi...», ha detto recentemente il vicepresidente del club rossonero Adriano Galliani, e in quella frase è racchiuso un fenomeno se vogliamo di “controtendenza” che è materia di una ricerca approfondita condotta dello Studio Ghiretti, autentica eminenza grigia in fatto di marketing sportivo. Dalla ricerca effettuata su scala nazionale, infatti emerge che gli sponsor nelle quattro discipline più popolari - calcio, basket, volley e rugby -, non solo non si sono dati alla fuga, ma addirittura si segnalano in aumento. Su un campione di 138 società sportive (rispettivamente di prima e seconda serie professionistica) delle quattro discipline citate, i marchi che investono nella sponsorizzazione sono 4.583. Nelle 42 società di calcio (le 20 di serie A e le 22 di B) prese in esame, la media è di 35 sponsor per ogni singolo club. Una cifra considerevole, eppure scopriamo un dato sorprendente: il pallone che fagocita le domeniche degli italiani e riempie la quasi totalità del palinsesto mediatico in questo caso non ha la leadership nella media-sponsor. Questa spetta al sempre meno visibile volley che può vantare ben 43 sostenitori finanziari per ogni società, contro il 41 del basket. Le grandi industrie, ma anche le piccole e medie imprese considerano ancora utile investire parte dei loro introiti nel movimento sportivo, anche se l’incremento del numero di finanziatori non va di pari passo con la quantità di budget che viene messo a disposizione dei club. Il calcio ha meno partners di pallavolo e pallacanestro, ma i suoi 35 pro-club sopravanzano quasi sempre quelli delle altre due discipline sul fattore “qualità” che, nella fattispecie è indice di un gettito maggiore di denaro, per un business degli sponsor che secondo l’annuario StageUp si aggira intorno ai 141 milioni di euro. Indice comune è il frazionamento con almeno 70 tipologie sponsoriali che vanno dal più comune jersey sponsor (il classico nome del marchio sulla maglia) al co-sponsor, passando per lo special partner al rarissimo sponsor etico. Del resto quel che conta è fare business e possibilmente combinare affari con aziende che hanno sede sotto casa. In questo momento si assiste all’ascesa della “localizzazione” degli sponsor. Sono passati quasi cento anni dal primo accordo stipulato tra un’azienda e una società sportiva. In un mercato in cui al Real Madrid sono serviti 94 milioni di euro per acquistare il cartellino di Cristiano Ronaldo, fanno sorridere le 5 lire che nel 1914 il pioniere delle sponsorizzazioni, Costantino Reyer, versò nelle casse della Scherma e Ginnastica di Venezia. Eppure è cominciato tutto da lì, con l’investimento di un imprenditore locale che intendeva legare il suo nome e la sua immagine alla migliore espressione sportiva della zona. E il “marchio di zona” negli ultimi dieci anni ha visto un’impennata del 75%. La presenza dell’azienda locale (stessa città e provincia della squadra) e regionale, addirittura nell’ultimo campionato di calcio ha raggiunto il picco massimo dell’82,4%. Un dato, quello della localizzazione che complessivamente, senza andare a scomodare i “Title sponsor” – onnipresenti da sempre nel basket – consacrati come il Monte dei Paschi di Siena o la Benetton di Treviso, raggiunge addirittura l’85%. Il feeling società sportiva e azienda locale si è ormai consolidato, a volte anche con importanti ripercussioni sul piano culturale e a scapito della ricerca ossessiva dei nuovi mercati, come la Cina, l’India o i Paesi sudamericani. Il partner “casareccio” è anche il più richiesto per quanto attiene agli sponsor tecnici. La Nike è fuori dal podio nella speciale classifica degli sponsor tecnici, ovvero quelli che forniscono il materiale sportivo alle società. Ai primi tre posti infatti ci sono tre industrie italiane, nell’ordine: l’Errea Sport di San Paolo di Torrile – Parma – che fornisce 23 squadre, la bolognese Macron (16 squadre) e la Legea che ha sede a Pompei e con le 6 società (sulle dieci complessive) a cui arriva il suo materiale è il primo sponsor tecnico del calcio italiano. In questo scenario, tutto sommato roseo, quello che salta all’occhio e dovrebbe generare sospetti nel tifoso più attento, è che in un momento in cui gli istituti bancari sono i maggiori responsabili del crac economico planetario, questi moltiplicano la loro presenza al fianco delle società sportive. Quasi un quarto dei proventi degli sponsor del calcio, il 23,1%, hanno come matrice finanziaria Banche e Assicurazioni. Le squadre degli anni ’80 si affidavano ai prodotti di “food&beverage” i quali hanno subito un crollo vertiginoso, scendendo dal 30% al 5% ed evitando la sparizione (come accaduto ai marchi di elettrodomestici) solo perché ancora hanno un certo appeal tra le società di volley. Dei quattro sport, il ruolo della “Cenerentola” non solo in tv, ma anche da un punto di vista delle risorse, spetta al “povero” rugby che con il 76% ha una copertura di sponsor 14 punti sotto il calcio e più di venti dal basket (coperto per il 97%). Neppure la proliferazione dei marchi di zona ha potuto salvare il Calvisano che da una delle due candidate italiane deputata a entrare nel 2010 nel prestigioso Magners Celtic League (torneo di 15 tra le migliori squadre d’Irlanda, Scozia e Galles), per mancanza di sponsor non si è potuta neppure iscrivere al Super 10 italiano e adesso deve ricominciare dalla serie A2. Un po’ come se nel calcio, quel Milan, dal quale gli sponsor non sono affatto fuggiti, anzi, domattina dalla Champions League si ritrovasse iscritto alla serie B per carenza di fondi derivanti dai suoi affezionatissimi partners. Morale della favola impietosa: si gioca bene, non finché la palla rimbalza in campo, ma solo se il denaro arriva nelle casse.Quello etico, raro come una figurina. Lo Studio Ghiretti oltre ai dati raccolti nella sua ricerca ha analizzato in profondità il fenomeno degli sponsor con tutte le sue ripercussioni non solo sul piano squisitamente finanziario. «La crisi ha colpito anche il mondo dello sport e quello dell’aumento degli sponsor è in effetti una “tattica” gestionale da parte delle società che però commettono l’errore di guardare solo al breve periodo. Incassano denaro fresco e subito, ma non hanno una progettualità per fronteggiare l’ondata della crisi che si ripercuoterà sul lungo periodo, e a quello arrivano quasi tutte impreparate, oltre che indebitate». Uno spettro praticamente inevitabile per tutto lo sport professionistico, a meno che non si cambi in corsa con una “strategia di lungo periodo”. Ma quale potrebbe essere? «Cercare dei nuovi interlocutori con i quali instaurare un rapporto commerciale che potenzi l’immagine del club sportivo, il quale dovrebbe darsi un nuovo target e un profilo più alto rispetto a quello tenuto in passato.Un processo di maggiore identificazione insomma di intenti e scopi tra la società sportiva e la sua partnership che non sia più legato al risultato spicciolo del contingente, ma abbia un respiro quanto meno pluriennale». Mentre come si è visto è in netta crescita la “localizzazione”, anche se contemplato, lo “sponsor etico” resta ancora una mosca bianca. «L’esempio del Barcellona che indossa le maglie con la scritta Unicef e addirittura è il club stesso che paga o meglio fa una donazione all’ente benefico, è sicuramente un’eccezione su scala mondiale. Poi ci sono dei movimenti spontanei e popolari come il caso dei tifosi dell’Atalanta che durante l’ultima “Festa della Dea” hanno raccolto 15 mila euro che sono stati donati ai giocatori dell’Aquila Rugby invitati alla serata. Ora la squadra abruzzese, particolarmente colpita dalla solidarietà fraterna dei supporters bergamaschi, ha deciso che sulla maglia della prossima stagione ci sarà come “sponsor simbolico” la scritta Curva Nord Atalanta». Sponsor solidale dunque, in un panorama in cui invece impera il merchandising selvaggio e la brandizzazione globale. Gli utili derivanti dal merchandising nel calcio sono decisamente inquietanti sul piano della qualità più che della quantità. Basti pensare che il Real Madrid ha già polverizzato in pochi giorni dall’arrivo di Cristiano Ronaldo qualche decina di migliaia di maglie personalizzate del fuoriclasse portoghese. Maglie originali che sul mercato vengono vendute a una media di 75 euro e che al club spagnolo costano al massimo 10 euro. Siamo su ricavi vicini al 100%.Quando il marchio era vietato sulla maglia. Al teledipendente della domenica sportiva, appare del tutto scontato che ad ogni fine partita lo Spalletti o il Mourinho della situazione per l’intervista di rito si posizioni davanti al tabellone radioso degli sponsor. Invece possiamo assicurare che questo cerimoniale, molto remunerativo per la singola società e indotto vitale per tutto il movimento sportivo, è una conquista della contemporaneità. Basti pensare che solo nel non lontanissimo 1962 al velodromo Vigorelli di Milano il ciclista Antonio Maspes in maniera assolutamente “clandestina” poteva esibire il marchio Ignis che aveva stampato sulla maglia. Per mostrarlo a tutta l’Italia collegata in diretta tv ideò un autentico fuori programma: 23 minuti di surplace del tutto gratuito, al solo scopo di far inquadrare dalla telecamera quello sponsor che gli valse un milione di premio. Nello smaliziato pianeta calcio un decennio prima, 1953, il Lanerossi si legò al Vicenza con un contratto di sponsorizzazione da ben 12 milioni. Una bella somma per l’epoca, ma in linea con quello che investiva la Simmenthal per legare il suo nome al Monza o alla Talmone che impose al Torino la maglia granata con la grande “T”, naturalmente simbolo dell’industria dolciaria. Il boom dei primordiali “title sponsor” venne però stoppato con tanto di divieto Federale. Così mentre la maggior parte dei club inglesi e tedeschi negli anni ’70 sfoggiavano per gli stadi del mondo le loro munifiche sponsorizzazioni, qui da noi solo il Lanerossi, in virtù di una convenzione speciale, poteva ancora affrancarsi al Vicenza. Per tutti gli altri valeva la ferrea norma dell’articolo 16 che prevedeva il divieto tassativo di esposizione degli sponsor sulle maglie. L’astuto Teofilo Sanson, patron dell’Udinese allora nel ’78 aggirò l’ostacolo facendo stampare il nome della sua azienda omonima sui calzoncini dei suoi giocatori. Se la cavò con una multa di 10 milioni, ma l’impennata delle vendite di gelati gli permise di foraggiare ampiamente il club friulano nel corso delle stagioni seguenti. Ma trent’anni fa, il 26 agosto 1979, la rivoluzione dello sponsor nel calcio partì da Perugia. L’illuminatissimo presidente del Perugia Calcio Franco D’Attoma stipulò un accordo con il pastificio locale Ponte facendolo risultare "sponsor tecnico" in modo da poter utilizzare i 12 centimetri di esposizione del marchio sulla maglia, consentiti dalla Federazione. Quest’ultima però capì l’escamotage della “maglia in affitto” da parte di un’azienda che tutto poteva dirsi tranne che sponsor tecnico e multò il Perugia di 20 milioni. Danno irrisorio perché il club umbro intanto dalla Ponte aveva incassati 400 milioni di vecchie lire di sponsorizzazione, equivalenti all’incasso lordo di 800 milioni che gli consentirono di pareggiare il bilancio annuale di gestione e addirittura di pagarsi il prestito dal Vicenza (strappandolo alle buste alla Juve) di quello che ai tempi era il più forte attaccante italiano, Paolo Rossi. Il “caso Perugia” smobilitò il Palazzo del calcio, costretto a rivedere in fretta tutte le regole in materia di marketing sportivo. Così nel 1981 finiva l’era dell’embargo degli sponsor che oggi hanno a disposizione un massimo di 200 centimetri sulla maglia, di cui 16 centimetri quadrati ad appannaggio dello sponsor tecnico. Di questi 20 si può esporre sulla parte anteriore della maglia e 12 sull’anteriore dei calzoncini. Come farà il Torino del presidente Cairo che nella prossima stagione, a un trentennio dalla trovata di Sanson, esibirà il marchio MG.K VIS. La brandizzazione diffusa avanza anche nel calcio e presto i club italiani avranno stadi di proprietà con il “title sponsor”, sul modello dell’Arsenal la cui intitolazione “Emirates” del proprio impianto di gioco gli frutta 100 milioni di sterline fino al 2021, garantiti dalla stessa compagnia aerea. Gli Emirates intanto corteggiano il Milan al quale hanno proposto un quadriennale da 20 milioni a stagione, ma il primo stadio italiano con “title sponsor” sarà quello della Juventus che si è accordata con la Conad che con una operazione da 90 milioni di euro gestirà tutta l’area commerciale del nuovo impianto che verrà inaugurato nel 2011.
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