venerdì 30 agosto 2013
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«Quelo che vole el Paròn… Quanto bon che xè el Paròn, come se fa no volerghe ben?», così Giuseppina Bakhita, la religiosa sudanese salvata dalla schiavitù e proclamata santa (il 1° ottobre del 2000) da papa Giovanni Paolo II, si rivolgeva a Dio chiamandolo nel dialetto veneto di Schio (dove morì nel convento delle Canossiane nel 1947) el Paròn, il Padrone.“El Paròn” era anche il nomignolo con cui è passato alla storia del calcio il triestino Nereo Rocco, l’allenatore del Milan di Gianni Rivera. E nella storia del pianeta football, per lo più abitato da giovani ricchi e viziati mutandieri della domenica o al massimo da fini pensatori con i piedi, passerà sicuramente anche il grande impegno socio-culturale che da anni va diffondendo un campione del mondo (in campo con la Francia nel 1998) del pensiero forte come Lilian Thuram. Il quarantunenne francese, nato a Guadalupa – ex Parma e Juventus – anche dopo aver lasciato il calcio ha continuato la sua missione di difensore, scendendo nel campo dei diritti civili e della lotta al razzismo. Ambasciatore Unicef a Parigi, dove vive, Thuram ha creato una fondazione (“Educazione contro il razzismo”) e da un ciclo di conferenze è scaturita la stesura del suo libro Mes étoiles noires, Le mie stelle nere (pubblicato in italiano da Add Editore). Un volume intenso, ricco di ritratti di uomini e donne illustri di colore «ma spesso ignorati dalla Storia», sottolinea Thuram, che vanno dalla “nonna africana” dell’umanità Lucy – la creatura che risale a 3.180.000 anni fa – al primo presidente nero degli Stati Uniti d’America, Barack Obama. «Abbiamo tutti la stessa origine. Siamo tutti africani nati tre milioni di anni fa e questo dovrebbe spingerci alla fratellanza, mi ha detto uno dei tre scopritori di Lucy, il professor Yves Coppens». Comincia da qui la filosofia universalista che anima Thuram e che esporrà al Festival della Letteratura di Mantova. Un pensiero che trova le sue radici spirituali in una antesignana di santa Giuseppina Bakhita: la mistica Doña Beatriz. Thuram dedica uno dei capitoli centrali del suo libro a questa cattolica “guerriera del rinnovamento”, fondatrice nel 1704 del movimento degli Antoniani nell’allora Regno del Congo. Per la storiografia occidentale, per via della sua condanna a morte – arsa al rogo – è diventata la “Giovanna d’Arco nera”. Comunque la si guardi la sua vicenda, Doña Beatriz è un simbolo della cristianità, non solo africana. «La sua fede è salda e sincera. Persino troppo, perché nella sua convinzione nella parola liberatrice di Cristo non tollerava menzogne e si rivoltò contro i suoi confessori, colpevoli di aver dimenticato che quella stessa parola liberava gli schiavi cristiani di Roma», scrive Thuram, che sottolinea: «Più di una volta, durante la schiavitù e la colonizzazione, le Sacre Scritture si trasformeranno in strumenti di resistenza e di rivolta». La rivolta della “Vergine del Congo” Thuram l’ha fatta propria, condividendo a pieno il messaggio universale di Doña Beatriz: che alla domanda del suo giustiziere padre Bernardo, «Ci sono neri in cielo?», rispose sicura: «In cielo ci sono piccoli neri battezzati e anche adulti, ma non hanno la pelle né nera né bianca, perché in cielo non ci sono colori».Tutta l’attività divulgativa dell’ex fuoriclasse francese è rivolta all’abbattimento degli steccati razziali, ma è convinto che questa azione può dare risultati concreti solo se viene fatta iniziare dai banchi di scuola. «Quando vado nelle classi, i bambini mi dicono che riconoscono quattro tipi di razze: nera, gialla, bianca e rossa. Dei neri sanno che sono i più veloci, più forti fisicamente e cantano meglio di tutti. I gialli sono forti in matematica e campioni di ping-pong. Ai bianchi riesce bene un po’ tutto quello che sanno fare le altre due razze, mentre dei rossi non sanno niente, anche perché in Francia non si vedono più film alla tv sugli indiani d’America. Ma qualcuno ha detto loro che quelli sono i rossi... Noi dobbiamo cambiare questa prospettiva della divisione, dobbiamo educare le persone fin da piccole, anche perché i bambini sanno stare insieme senza provare paura per le loro differenze. E poi i bimbi vedono cose che noi adulti ignoriamo…». Della cultura nera-africana non è più possibile ignorare che nel regno del Mali, nel 1222 (il giorno dell’incoronazione dell’imperatore Sundjata Keita), «567 anni prima della Dichiarazione dei diritti dell’uomo» venne proclamata la “Carta Manden”. Su quella Carta, «modello di umanesimo e di tolleranza», stava scolpito un precetto universale, purtroppo oltraggiato dai colonialismi e da ogni forma di totalitarismo: «Una vita è una vita». È il mantra che va ripetendo questo grande uomo di sport, fiero della sua appartenenza al genere umano, prima che alle radici nere. Un senso di appartenenza che prima di Thuram tra gli sportivi hanno manifestato Jack Johnson, nel 1910 “il pugile più grande di tutti i tempi”, il campione del mondo Battling Siki, Panama Al Brown pupillo di un intellettuale come Jean Cocteau. E ancora il primo “figlio del vento” dell’atletica, Jesse Owens, che nella Berlino nazista del 1936 vinse quattro ori e ricevette persino il tacito plauso di Adolf Hitler. Onore a Owens dall’uomo che aveva elevato la razza ariana al rango superiore rispetto alle altre e rinfocolato il razzismo e l’antisemitismo che purtroppo fa ancora proseliti, a cominciare dalle curve degli stadi di calcio. Ai «buu-buu» che in Italia continuano ad avere come principale bersaglio mobile il <+corsivo>black-italian<+tondo> Mario Balotelli, Thuram risponde: «Quei cori oltraggiosi non devono fargli né caldo né freddo, perché né io né lui siamo delle “scimmie”. È quello che avrei voluto dire a Balotelli quando l’ho chiamato per parlargli, ma come molti calciatori famosi, non risponde mai al telefono... Lui resta comunque una vittima del razzismo e sbagliano tanti suoi colleghi e quei dirigenti che tendono a sminuire certi episodi che si ripetono sistematicamente in uno stadio. Per affrontare e superare un problema non si può negarlo, ma è necessario riconoscerne l’esistenza». Thuram rilancia lontano come un pallone il suo sguardo di speranza: «Non c’è una storia nera né una storia bianca. È tutto il passato del mondo che dobbiamo recuperare per capire meglio noi stessi e preparare il futuro dei nostri figli».
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