martedì 1 febbraio 2022
Fra i valdesi del XVI-XVII secolo in Piemonte si afferma la figura del ribelle contro i Savoia e la Chiesa mietendo successi. Ma gli evangelici fanno la pace e ai resistenti tocca l'esilio. Un saggio
Il massacro dei valdesi nel 1655

Il massacro dei valdesi nel 1655 - .

COMMENTA E CONDIVIDI

Altro che Camilo Torres, il mitico sacerdote- guerrigliero ucciso in Colombia nel 1966... I banditi del Vangelo sono nati nell’Italia del Seicento, anzi proprio con loro si è sviluppata e diffusa la primissima teoria della guerra per bande, grazie a un dettagliato manuale di 'Istruzioni' pubblicato a Ginevra nel 1685 dal condottiero-contadino Giosuè Gianavello. È una storia poco nota quella narrata da Luca Perrone in Banditi nelle Valli valdesi (Claudiana, pagine 330, euro 29,00), eppure di lunga durata e pesante impatto – almeno per una secolare, compatta realtà socio-religiosa come quella dei riformati piemontesi; basti pensare a episodi drammatici come le Pasque di sangue del 1655 (violentissimo pogrom antivaldese che provoca tra mille e duemila vittime soprattutto in Val Luserna, oggi Pellice) per finire con l’esilio a Ginevra nel 1686, necessario antefatto del successivo Glorioso Rimpatrio nel 1689.

Ma la conflittualità politicoreligiosa tra i duchi sabaudi (il cui Stato andava formandosi proprio in quegli anni di Controriforma) e le comunità valdesi delle attuali Valli Pellice, Chisone e Germanasca era cominciata già nel 1560 e si era sviluppata con alterni picchi di violenza, come per esempio il soulevement sorto nel 1600 come reazione militare all’imposizione di decime da parte di un bellicoso curato cattolico. Nascono così i primi 'banditi religionari', nel senso etimologico del termine: perché i giovani valdesi che si oppongono, compiendo anche alcuni delitti e ruberie, vengono colpiti dal bando ducale e dunque devono vivere alla macchia organizzandosi in piccoli gruppi armati di archibugi e beidane (lunghi coltelli contadini). Essi rifiuteranno però sempre il termine di ribelli, nel senso che protestano a loro difesa di non volersi opporre al legittimo potere dei Savoia (incorrendo perciò nel delitto gravissimo di lesa maestà) bensì di essere costretti a difendere le prerogative della loro fede, peraltro sancite dalla pace di Cavour (1561), per esempio la libertà di celebrare il culto.

Ovviamente a questi intenti si mescolano poi fini più materiali, come per esempio la difesa dei propri beni (il bando ne prevedeva infatti la confisca) o la possibilità di comperare terre dai cattolici anche al di là dei confini in cui ai valdesi era permesso vivere. Dalla parte opposta, del resto, c’erano gli influssi bellicosi dell’inquisizione cattolica, che cercava non solo di infiltrare missioni religiose tra gli “heretici” ma anche di indurre il potere politico a liberarne definitivamente le valli piemontesi, nonché i complessi rapporti internazionali di confine con la Francia (dove gli ugonotti erano una potenza) e con la Svizzera calvinista. In questo clima cominciano a farsi strada le figure di alcuni banditi valdesi, il cui mito si muove tra terrore e ammirazione.

Giacomo Laurenti, perseguito per aver tagliato alcune piante in luogo proibito (come due secoli dopo il protagonista dell’Albero degli zoccoli...), diventa nel 1624 il capopoppolo nella 'guerra dei templi' in Val Chisone contro la demolizione coatta di luoghi di culto valdese. Bartolomeo Jahier, capo della prima resistenza durante le Pasque del 1655, ucciso a tradimento in un’imboscata notturna nel giugno di quello stesso anno. Soprattutto il citato Gianavello, che ne prenderà il posto diventando per un decennio l’indiscusso Capitano delle Valli e avendo ai suoi ordini nei momenti d’oro oltre duemila armati. Interessante in questo contesto anche il ruolo dei pastori riformati, almeno 8 dei quali finirono banditi a causa delle loro collusioni con i gruppi armati.

Giosuè Giavanello il bandito valdese che guidò la protesta

Giosuè Giavanello il bandito valdese che guidò la protesta - .

Il principale è Jean Léger, moderatore delle Chiese valdesi del 1653 e risolutissimo animatore della resistenza. È lui a inviare lettere a tutti i confratelli di fede in Europa per chiedere sussidi in denaro e finanziare le bande piemontesi, ottenendo in effetti molti aiuti dai Cantoni svizzeri, dai principi protestanti tedeschi, persino da Cromwell in Inghilterra. Léger diventa dunque il nemico pubblico numero uno del ducato, non solo condannato a morte ma bruciato in pubblico a Torino sotto forma di pupazzo nel 1662, quando però aveva già trovato rifugio nella calvinista Ginevra; dalla quale per un decennio scrisse e fece tradurre in tutt’Europa (soprattutto in Olanda) numerosi pamphlet in difesa della causa delle Valli, nonché una monumentale storia delle Chiese evangeliche piemontesi.

Tali implicazioni straniere servono come ulteriore argomento ai sabaudi per giustificare la repressione, che nel tempo si serve di tutti gli strumenti possibili: dalle lusinghe del perdono ducale per chi aveva seguito i banditi ma si fosse poi pentito, agli incentivi per spie e traditori – nel 1660 Léger viene accusato di parzialità nella distribuzione dei fondi ricevuti dall’estero e denunciato al duca da alcuni notabili valdesi (poco dopo lestamente assassinati) –; dalle continue ordinanze minacciose, alla costruzione di un nuovo forte nelle Valli. In realtà l’efficacia di tali misure è piuttosto discutibile, anche per l’appoggio quasi generale delle popolazioni locali a Gianavello e ai suoi, definiti 'cani da guardia' della comunità; nel maggio 1663, durante la predica domenicale ad Angrogna, i pastori fanno addirittura giurare “a mano alzata” ai fedeli maschi perenne fedeltà ai banditi, che hanno appena iniziato la più dura campagna militare contro i Savoia tagliando i ponti sul Pellice e isolando l’omonima valle.

In quella guerra i banditi religionari ottengono successi a Luserna e ad Angrogna, nonostante i sabaudi impegnino ben seimila uomini. Ma poi arriva l’autunno, sui valligiani si fanno sentire il peso delle operazioni militari e le urgenze dei lavori agricoli, il fronte del consenso si disunisce e– non senza accese discussioni nella varie comunità – il 14 febbraio 1664 i deputati valdesi firmano a Torino la pace che prevede l’esilio perpetuo dei 44 più pericolosi banditi, Gianavello compreso. Quest’ultimo a Ginevra farà comunque in tempo a dettare le sue “Istruzioni per attaccare le Valli con le armi”, consigli molto pratici di guerriglia di montagna destinati a organizzare la resistenza contro l’editto di espulsione degli evangelici del gennaio 1686: primo manuale della tattica per bande della storia, condensato della secolare esperienza dei 'banditi religionari' del Piemonte, preliminare per il Glorioso rimpatrio del 1689.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: