venerdì 21 giugno 2013
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​Quando vinse il premio Nobel per la letteratura nel 1986, il primo conquistato da un africano, Wole Soyinka (che giovedì 25 giugno alle ore 21 interverrà al Teatro Dal Verme di Milano nell’ambito della Milanesiana) era un drammaturgo famoso anche sulle scene londinesi. Il suo teatro, che attinge alla tradizione yoruba, rappresenta una fusione modernissima dell’elemento rituale – che è all’origine del teatro in assoluto, in Occidente con la tragedia greca – e della realtà contemporanea. Il mito vive nel presente, non nelle teche di un museo. In tal senso pièces straordinarie come La morte e il cavaliere del re, La strada (storia di una stazione di camion, un classico della mitologia della strada, accanto a Kerouac, Fellini, Wenders), e tutto il suo teatro, in cui la scena è invasa dall’agone della vita, del senso finale, dell’origine, secondo i modelli della tragedia greca e del dramma elisabettiano. La realtà della scena di Soyinka conosce tutte le gamme del shakespeariano «teatro del mondo», la sua poesia attinge alla realtà mitologica primaria, è cosmica, antropologica, l’opera narrativa ha il respiro epico dei narratori delle origini, ma la forma tormentata e a tratti oscura delle esperienze più forti del Novecento. Ma forse il romanzo maggiore di Soyinka è L’uomo è morto, nato dal duro periodo di prigionia: per la sua presa di posizione pacifista durante la guerra del Biafra, fu imprigionato, torturato, vessato. Ma lo scrittore ha anche una grande dimensione saggistica: in Mito e letteratura. Nell’orizzonte culturale africano spalanca una visione rivelante non solo sull’oggetto esplicito dell’indagine, ma sulla realtà mitica del mondo.

«Myth, Literature and African World»: un titolo importante in assoluto, e per la mia formazione. Opera di uno scrittore, poeta, drammaturgo, non uno storico del mito, ma un testimone vivente. Che cosa è il mito nel mondo africano, in relazione a Europa e Occidente?«Tutte le mitologie convergono su parecchi punti. La differenza tra miti europei e africani è che in Europa i miti sopravvivono ampiamente nell’accademia, alimentando alcuni eccezionali temperamenti poetici. In Africa i miti sono vicini di casa. Un mio verso recita: “I miti sono i nostri saggi coinquilini”. Ma in origine il mito è basata su profonde affinità: tutti i miti nascono dai tentativi dell’uomo di portare alla luce e comunicare le sue intuizioni profonde. Nell’antichità, in Asia, in Europa, in Africa, l’uomo esisteva all’interno di una totalità cosmica, possedeva una coscienza in cui il suo essere terreno, la percezione di sé legata alla gravità era inseparabile dal fenomeno del cosmo nel suo intero».Pensa che il mondo, oggi, tutto il mondo, abbia bisogno di poesia, mito, immaginazione?«Che mondo sterile, meccanicistico, sarebbe un mondo ove mito, poesia e immaginazione fossero in via di estinzione. Devo dire che solo queste funzioni mi riconciliano oggi con l’esistenza della religione nelle epoche, responsabile spesso di gravi danni all’uomo».L’immaginazione è memoria, non fantasia. Concorda?«È entrambe, ma nessuna delle due. L’immaginazione è uno stato di possessione».

Lei ha pronunciato parole indimenticabili contro la “Negritudine”, che considera, e concordo, una categoria occidentale. Ma non pensa che, a parte la Negritudine, la realtà nera sia differente, ai nostri tempi, e nuova?«No, non ho mai affermato che la Negritudine fosse un concetto occidentale. La mia critica verteva sul fatto che fosse riduttivistica. Tipo: “La Ragione è greca, l’Intuizione africana.” Dicotomie estreme, inaccettabili. Proprio nel libro che lei citava all’inizio, scrivevo che in Africa la Negritudine era un esempio proponibile per una fruttuosa coincidenza tra ideologia letteraria e visione sociale. Sia per gli africani sul continente originario, sia per le società nere della diaspora, la Negritudine ha fornito insieme una sagola di salvataggio, con cui individui isolati potevano essere riportati alla fonte della loro matrice essenziale, e una prospettiva per la creazione di nuove entità sociali nere. Ma, notavo, nel fare questo la Negritudine si trovò impaniata in tante definizioni contraddittorie e negative, e ciò non era certo necessario. La conseguenza fu una sua dicotomica assiomaticità insostenibile. Da una parte la ragione, dall’altra l’intuizione. La Negritudine si è intrappolata, e anche quando i suoi toni erano stridenti e la strategia aggressiva, ha accettato una delle più comuni  bestemmie del razzismo; che il nero non ha niente nella testa, e in lui si esaltava una creatività mutilata. Il che non ha niente a che vedere con la concezione del mondo africana, che non crede a categorie rigidamente non comunicanti, e crede che la creatività sia una fonte unica e armoniosamente fluente di umana rigenerazione. L’idea stessa di separare tra loro le manifestazioni del genio umano è estranea alla concezione africana del mondo».Famosa la sua affermazione: “La tigre non ha la tigritudine, la tigre balza”. Del resto “New Thing”, definizione di una particolare e non felice ma forte forma di jazz, definisce, intesa in senso lato, la realtà della musica del XIX secolo: nera, nuova, romantica, rivoluzionaria, felice e dura.«Adesso il jazz: direi non “felice”, ma “gioioso”. Sì, gioioso e addolorato. Forse per questo il jazz rimane un genere di musica universale».Le arti del Novecento sono due: il jazz e il cinema. Qual è il suo rapporto con il grande schermo? Ho letto in un’intervista di una sua folgorazione infantile…«Sì, una rivelazione dell’infanzia. Per le vacanze andavamo con la famiglia dai cugini a Lagos. Lì, in un cinema popolare della capitale, ebbi il mio primo incontro diretto con il grande schermo. Erano i film di Charlie Chaplin. Ne fui così colpito, ammirato e emozionato che tornato a casa ritagliai delle figurine e le proiettai sul muro».E in seguito?«Sono sempre stato vicino al cinema, partecipai a un paio di produzioni prima ancora di iniziare a scrivere poesia e romanzi. Ma come si sa la realizzazione di un film comporta il ricorso a ingenti capitali. Non ho mai pensato quindi a un film derivante da un mio romanzo, per queste questioni evidenti. Tra l’altro mi colpisce un fatto curioso, che segna l’unicità del cinema rispetto a tutti i generi d’arte: mentre poesia, arti visive, teatro, si influenzano e dialogano da sempre, e mentre sono nati e nascono film da romanzi o opere teatrali, non è mai, o quasi mai accaduto che un film ispirasse un libro». Quando lei, come ogni persona informata, scopre, grazie ai grandi paleoantropologi, che l’Africa è la culla del genere umano, è indifferente?«Del tutto indifferente. Di nessuna rilevanza per la conoscenza dell’uomo. Tanto per dire, mi aspetto di svegliarmi domattina per scoprire che gli antropologi hanno ora determinato che l’ominide è nato al Polo Nord».L’uomo è nato in Africa. Che cosa può dare l’uomo africano al genere umano, oggi?«L’Africa non dovrebbe provare alcun compulsione a dare qualcosa al mondo. Date le orrende relazioni dell’Africa col resto del mondo per parecchi secoli, la domanda dovrebbe essere: “Che cosa dovrebbe restituire l’Europa all’Africa?”».

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