domenica 19 marzo 2017
Intervista a Giuseppe Vacca: «Lo spazio del mercato tende a espandersi, l’esistenza si rinchiude in limiti angusti. Tutti vogliono decidere su tutto, ma perché?»
«Sul fine vita occorrerebbe un negoziato simile a quello che nel ’78 portò alla legge sull’aborto. Ma oggi si sconta la mancanza di una base morale comune». Parla lo storico Giuseppe Vacca.

«Sul fine vita occorrerebbe un negoziato simile a quello che nel ’78 portò alla legge sull’aborto. Ma oggi si sconta la mancanza di una base morale comune». Parla lo storico Giuseppe Vacca.

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Giuseppe Vacca è un falso pigro. Si aggira con aria svagata per le stanze della sua casa-biblioteca, mette la caffettiera sul fuoco, rassicura il cane sulla presenza dell’ospite. A tutto sembra pensare fuorché ai destini della politica. E invece è da poco stato in tv per dire la sua sulla scissione nel Pd, ha appena rilasciato una dichiarazione sul duello Renzi-D’Alema, sta limando un articolo per una rivista scientifica e, certo, ha finalmente pubblicato da Einaudi Modernità alternative, un saggio che è la sintesi di quasi mezzo secolo di ricerche sull’opera di Antonio Gramsci (il libro è recensito in questa stessa pagina da Marco Roncalli). Lui, che dell’Istituto Gramsci è stato tra i fondatori, non si stanca di mettere in guardia dal rischio di piegare i Quaderni dal carcere alle esigenze dell’attualità. È vero il contrario, semmai: il presente in cui viviamo sta ancora cercando di essere all’altezza delle analisi che negli anni Trenta Gramsci affidava ai suoi appunti durante la lunga detenzione nelle prigioni fasciste. La politica e la vita, siamo ancora lì. Tra meno di una settimana, il 23 marzo, la Camera dei Deputati ospiterà un incontro internazionale su “Maternità al bivio: dalla libera scelta alla surrogata”, in Europa e nel mondo i venti del populismo soffiano sempre più minacciosi, la guerra è evocata sempre più spesso. Nel frattempo il caffè è salito, ci si siede, si comincia a parlare. «La sovranità – commenta Vacca girando il cucchiaino –, il problema è sempre lo stesso».


Non il populismo, dunque?

«Populismo è un termine nobile e nobilmente specifico. Fin troppo per la situazione in cui ci troviamo. Nel nostro Risorgimento populista era Mazzini, per intenderci. E populisti in senso tecnico furono Perón in Argentina e Vargas in Brasile. Figure carismatiche a beneficio delle quali vengono manipolate e ricombinate le fratture tradizionalmente presenti in una società, con l’obiettivo di pervenire a una rinnovata coesione nazionale. In questo modo il Paese crede di affrancarsi da una condizione di dipendenza nel quadro internazionale. Non dico che si tratti di un progetto condivisibile, ma di sicuro è una proposta politica ben chiara. A quale logica rispondono, invece, i fenomeni che dalla Gran Bretagna alla Germania, e dalla Francia all’Italia interessano l’Europa? Quale messaggio credono di lanciare Lega e Movimento 5 Stelle quando, all’indomani del referendum, minacciano di non partecipare ai lavori parlamentari? La sfiducia nelle istituzioni, abbiamo capito. E poi?»

È qui che entra in gioco la crisi della sovranità?

«Prima ancora, direi, perché è l’orizzonte che accomuna quanto sta accadendo a livello sia locale, in Italia, sia globale, nel resto del mondo. Una reazione a catena della quale è ancora impossibile prevedere l’esito finale, ma che in conseguenza della quale l’esistenza di ciascuno si rinchiude in un ambito di necessità sempre più anguste. Date queste premesse, anche la semplice attività di distinguere il vero dal falso si trasforma in un’impresa molto difficoltosa e ogni tentativo di interpretazione complessiva si scontra con ambiguità finora inedite. Prendiamo un tema classico, come quello dei rapporti fra la scienza e l’apparato militare o, in senso più ampio, tra la scienza e il capitale. Come intenderlo oggi? In quale contesto inserirlo? Da un lato agisce la continua espansione del mercato, dall’altra la riduzione di ogni istanza all’immediatezza del sé individuale. Niente e nessuno è più in grado di esercitare la sovranità in senso proprio».

Neppure il mercato, al quale lei stesso ha fatto riferimento?

«Il mercato produce un salto di scala, non ci sono dubbi. La maternità surrogata è, da questo punto di vista, un caso esemplare, che si inserisce a sua volta in un contesto che ha da tempo portato alla mercificazione del corpo in forme anche violente, come accade con l’espianto forzato degli organi. Sono argomenti rispetto ai quali, fino a non molto tempo fa, esisteva un minimo di cultura morale condivisa, sulla cui base si potevano impostare soluzione concrete. Adesso prevale una pluralità di punti di vista dei quali sfugge la motivazione. Tutti pretendono di decidere su tutto, senza che sia mai dato di sapere in nome di chi, o di che cosa, la decisione dovrebbe essere presa».

La stessa logica si applica al dibattito sul fine vita?

«Che però potrebbe essere l’occasione per una soluzione negoziata, con una distinzione netta fra testamento biologico e ricorso all’eutanasia. Il precedente al quale attenersi dovrebbe essere quello del dibattito che nel 1978 portò alla legge sull’interruzione della gravidanza. Nella quale, lo ricordo, l’aborto non è considerato un diritto e il principio di autodeterminazione della madre è soggetto a una serie di condizioni che sono il risultato del confronto tra le culture democratiche all’epoca prevalenti».

Ma qualcosa di simile è ancora possibile?

«Il mondo è uscito dalle sue vecchie forme, non possiamo negarlo, e questioni come quelle che abbiamo evocato (la maternità surrogata, il fine vita) si collocano in un contesto globale che però non va confuso con la retorica della globalizzazione. Per troppo tempo abbiamo voluto credere che il processo dipendesse da una o più centrali intente a influenzare le periferie. Non è così, se non altro perché l’Occidente è oggi diviso al suo interno e quindi inadeguato verso l’esterno. È una cultura terribilmente regredita rispetto alla spinta progressiva scaturita dal secondo conflitto mondiale. Perfino la Guerra Fredda, fino a un certo punto, ha agito come una forma di regolazione, impedendo le derive di cui siamo stati testimoni a partire dalle Guerre del Golfo».

Da dove ripartire?

«Nella situazione attuale ogni catena dell’autorità non può costituirsi se non su scala globale, ma i gangli che costituiscono questa stessa catena sono ormai incrinati. Il compito della politica dovrebbe consistere nel tutelare la vita, assicurare la riproduzione, garantire condizioni minime di un’esistenza degna. Ma perché questo accada, occorre tornare a confrontarsi con quello che Gramsci definiva “indifferente giuridico” ed è lo spazio della società, della condivisione, del vivere comune ».

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