mercoledì 12 febbraio 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
Da antico studioso di Antonio Rosmini, ritengo po­sitivo tutto ciò che contribuisce a gettare luce sul­la dialettica Chiesa-beni materiali. Chi ha avuto infatti tra le mani Le Cinque Piaghe della Santa Chiesa del prete roveretano sa che l’amico di Man­zoni e interlocutore attento del conte Camillo Ben­so di Cavour ha fornito un quadro concluso ed e­sauriente, sul piano teorico, dei rapporti tra Chiesa e beni eco­nomici. Non è questo né il luogo né il momento di trattarne, ma mi por­to dentro la convinzione che un’attenta lettura della quinta del­le Cinque Piaghe, dedicata dal Roveretano a questo tema («La servitù de’ beni ecclesiastici», ndr ), contenga tutti gli elementi necessari addirittura per una trattazione che potrebbe costituire una vera e propria «ecclesiologia dei beni». Un’ecclesiologia che ha stimolato assai poco i teologi di professione, che hanno sem­pre teso a considerare secondario, o dipendente da altri fatto­ri, il rapporto dialettico – talvolta addirittura conflittuale – tra Chiesa e beni materiali. Parte delle considerazioni rosminiane le ho ritrovate sullo sfon­do dell’Accordo sottoscritto trent’anni fa. Alla base di esso in­fatti vi è la convinzione che il tema dell’amministrazione dei be­ni temporali rivesta una grande importanza in ottica ecclesia­le, perché tali beni servono la comunione e la missione che la Chiesa svolge nel mondo. In quanto realtà anche sociale, la comunità ecclesiale vive nelle dinamiche proprie dell’esistenza umana, comprese le sue condizioni materiali. La gestione dei beni temporali de­ve esprimere e servire quella comunione nella quale è costi­tuito l’unico popolo di Dio. Il Concilio afferma che nell’unica Chiesa le diverse parti sono tra loro unite da «vincoli di inti­ma comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e gli aiuti materiali». Anche questi ultimi sono oggetto della co­munione, «poiché i membri del Popolo di Dio sono chiama­ti a condividere i beni». Da amministratori di beni donati dal­la grazia di Dio attraverso la generosità dei fedeli siamo chia­mati a condividerli con tutti, a servizio dei fratelli nell’unica comunione della Chiesa. Ho riferito, in apertura, del contributo offerto da Rosmini su que­sto argomento. Il grande filosofo e teologo italiano – che per primo e con sorprendente anticipo insiste sulla centralità e ra­dicalità della riflessione sul tema del rapporto tra Chiesa e be­ni materiali – fa partire la sua accattivante riflessione da quan­to si legge nel libro degli Atti degli Apostoli: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’a­nima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (At 4,32-35). Nella Chiesa nascente, cioè, l’attività di raccolta e di distribuzione dei beni a favore dei bisognosi era interamente motivata dalla co­munione che si andava sviluppando attorno agli apostoli e al­la loro testimonianza. La con­divisione diventava, in questa maniera, lo stile di vita della co­munità cristiana come mani­festazione visibile di quella u­nità profonda di spirito conse­guita grazie all’unica fede e al­la medesima carità. Sono tanti i documenti che hanno ripreso, approfondito ed attualizzato quanto descritto nel libro degli Atti. A comincia­re dal decreto conciliare Pre­sbyterorum ordinis. I sacerdo­ti, afferma il testo conciliare, possono possedere e devono amministrare i beni ecclesiastici per «l’organizzazione del culto divino, il dignitoso manteni­mento del clero, il sostenimento delle opere di apostolato e di carità, specialmente a favore dei poveri». Motivazioni puntual­mente riprese dal Codice di Diritto Canonico. In tutta questa materia, il Concilio e il Codice affermano chiaramente l’importanza del ruolo svolto dalle Conferen­ze episcopali, riconoscendone il molteplice e fecondo con­tributo affinché il senso di collegialità si realizzi concreta­mente. Si rileva infatti che «in specie ai nostri tempi, i vescovi spesso sono difficilmente in grado di svolgere in modo ade­guato e con frutto il loro ministero, se non realizzano una coo­perazione sempre più stretta e concorde con gli altri vescovi». Questa cooperazione esprime e concretizza l’«affetto colle­giale » dei vescovi, che è sempre l’anima di ogni loro forma di collaborazione. D’altra parte, le molteplici sfide sociali, po­litiche e culturali dei nostri tempi esigono una «concordia di forze come frutto dello scambio di prudenza e di espe­rienza in seno alla Conferenza episcopale». Il Sinodo del 1967 volle che tale cooperazione in seno al­le Conferenze episcopali fosse valorizzata anche e so­prattutto in materia di beni temporali ecclesiastici. Il quinto dei criteri, che quel primo Sinodo consegnò al­la Pontificia Commissione per la revisione del Codice di Diritto canonico, richiedeva che nella nuova normati­va della Chiesa trovasse larga applicazione, soprattutto in materia di amministrazione di beni temporali, il prin­cipio di sussidiarietà, affinché potessero essere tenute nel debito conto le leggi delle nazioni e le situazioni so­ciali ed economiche proprie delle diverse parti del mon­do. Coerentemente il Codice di Diritto canonico, entrato in vi­gore proprio trent’anni fa, lasciò alle decisioni normative delle Conferenze episcopali alcune determinazioni relati­ve ai beni temporali; a seguito di ciò le delibere applicative della Cei diedero vita a una significativa legislazione comple­mentare in materia. Le acquisizioni del magistero conciliare e le indicazioni codiciali trovano riscontro anche nella disciplina bilateralmente concordata con lo Stato italiano e segnatamente nel quadro di novità introdotte dall’Accordo concordatario del 18 febbraio 1984, in cui la materia degli enti e dei beni ecclesiastici nonché del sostentamento del clero occupa indubbiamente un posto di preminente rilievo. Questo rilievo, già riconosciuto nella sistemazione lateranen­se, non può sorprendere se si considera l’importanza che la materia assume nell’effettività dell’esperienza per il concreto dispiegarsi dei rapporti fra Stato e Chiesa. La comunità eccle­siale e la società civile si incontrano infatti non di rado proprio in occasione delle molteplici attività svolte dagli enti ecclesia­stici, che operando a cavallo tra i due ordinamenti rappresen­tano una sorta di «ponte» gettato a congiungerli. Ne deriva l’op­portunità di una regolamentazione bilateralmente concorda­ta e di una prassi attuativa che, pur nel rispetto della distinzio­ne degli ordini, possa riconoscere e valorizzare il ruolo e il con­tributo specifico degli enti degli enti della Chiesa nello Stato so­ciale, in ambiti decisivi come ad esempio quello dell’educa­zione, della sanità, dell’assistenza agli ultimi. Analoghe consi­derazioni possono valere (anche) per la materia del sostenta­mento del clero, tenuto conto in particolare del valore sociale delle molteplici attività svolte dai nostri sacerdoti e dalle rica­dute che essa comporta sull’utilizzazione delle risorse devolu­te dai contribuenti mediante la scelta dell’8 per mille. Sulla base di tutte queste considerazioni e in questi ambiti spe­cifici, con l’Accordo del 1984 ha preso avvio una nuova stagio­ne di relazioni tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, che ri­spetto alla tradizionale prassi concordataria porta a valoriz­zare il ruolo e il contributo della Cei, alla quale significa­tivamente viene riconosciuta la personalità giuridica ex le­ge. In particolare, il ruolo della Conferenza italiana risulta ri­conosciuto nel nuovo Accor­do concordatario, da un lato, mediante l’attribuzione di si­gnificative funzioni e specia­li compiti in materia di attua­zione pattizia. Dall’altro lato, mediante la previsione che «ulteriori materie per le qua­li si manifesti l’esigenza di collaborazione tra la Chiesa cat­tolica e lo Stato potranno essere regolate con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Cei» (art. 13). La previsione di nuovi livelli di trattative e di nuove forme di accordo prospetta ulteriori sviluppi del principio di bi­lateralità, ed esprime quello spirito di «reciproca colla­borazione per la promozione dell’uomo e il bene del Pae­se », pur nella riconosciuta distinzione delle competenze (art. 1), che caratterizza la nuova legislazione concordataria e deve orientarne l’interpretazione e lo sviluppo. Essa inoltre consen­te una maggiore duttilità dello strumento pattizio e l’opportu­na inclusione fra i protagonisti del dialogo tra Chiesa e Stato di quell’episcopato nazionale cui già il Concilio e il Codice di di­ritto canonico del 1983 avevano riconosciuto largo spazio. (...)L’esperienza della Cei nel corso dei primi trent’anni di ope­ratività dell’Accordo è stata largamente positiva, sia nei con­fronti dello Stato e della società civile, sia nei confronti del­la comunità ecclesiale. Nel rispetto del principio di corretta collaborazione nella libertà, che come è stato osservato rappresenta «l’anima del nuovo Concordato» (Nicora), è stato assicurato uno svolgimento sostanzialmente coe­rente e costruttivo delle linee ispiratrici generali della riforma, e una traduzione efficace in concrete ed ag­giornate disposizioni esecutive. La valorizzazione del­la Cei nel quadro del dialogo e della collaborazione tra Stato e Chiesa cattolica si è dimostrata una felice intui­zione, e potrà portare un molteplice e fecondo contri­buto affinché si realizzi concretamente il senso di col­legialità che deve sempre animare lo stile e l’azione del­le nostre Chiese. In una società come quella italiana che, senza negare la diversità delle culture e delle situazioni, ricerca un’unità più dinamica e indirizzi convergenti di soluzione per i grandi problemi, la Conferenza episcopale «si propone co­me figura concreta dell’unità della Chiesa, che concorre, a suo modo, a far crescere quella del popolo italiano, nel ri­spetto delle legittime diversità e autonomie».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: