giovedì 9 giugno 2016
Sistina, se l’immagine diventa mito
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Ormai è un riflesso automatico. Quasi pavloviano. Dici Michelangelo è la prima cosa che ti viene in mente è la Sistina. E, a dire il vero, una scena in particolare. La Creazione di Adamo, naturalmente. La conoscono tutti, anche chi non c’è mai stato E nemmeno sa dove si trovi e chi ne sia l’autore. Sono due le storie della Cappella Sistina michelangiolesca. La prima è quella in senso stretto degli affreschi, dal Fiat lux al Giudizio universale. E poi c’è quella della sua “immagine”, che è persino più vasta perché ha acquisito una vita autonoma. A questa oggi i Musei Vaticani dedicano la giornata di studio “Tradurre Michelangelo della Sistina. Dall’immagine fissa all’immagine in movimento”. Un viaggio, dalle prime campagne fotografiche passando per i film fino all’universo dei social network, che chiude, nelle parole del direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, il «trittico sistino », tre grandi iniziative di studio in altrettanti anni sulla cappella del papa.
 

 
 
«La fortuna iconica di Michelangelo è uno dei fenomeni più affascinanti della modernità» dice Paola Di Giammaria, responsabile della Fototeca dei Vaticani, curatrice del convegno con Tommaso Casini, docente alla Iulm, e Nino Criscenti, giornalista e autore televisivo. «È un mito che ha origine con le incisioni nel ’500 per poi esplodere con la fortuna della fotografia. A partire dalla prima campagna del 1870, la riproduzione delle immagini ha generato processi affascinanti che hanno reso gli affreschi degli oggetti iconici autonomi ». Non c’è tecnica che non sia passata dalla Sistina: «Anche le più insolite: possediamo ad esempio alcune rare fotografie su tela, realizzate alla fine dell’Ottocento». Eppure all’inizio non fu facile: «All’inizio le foto venivano guardate con sospetto nel campo della riproduzione delle opere d’arte. E poi in Sistina si entrava con timore. I documenti attestano la richiesta ad esempio che i procedimenti fotografici non richiedessero lavorazioni chimiche in sito, per garantire la conservazione degli affreschi».
 
 
Con il tempo cambia anche l’occhio dei fotografi: «Ai primi del Novecento i più esperti ricercano un’autonomia rappresentativa, manifestando vere e proprie ricerche autoriali». La prima grande indagine fotografica sul Michelangelo sistino la firma il romano Domenico Anderson, che “commenta” la monografia di Ernst Steinmann, pubblicata nel 1912. Dell’“immagine fotografica della Sistina nell’editoria scientifica e divulgativa nel Novecento” si occupa Maria Francesca Bonetti, responsabile delle collezioni fotografiche dell’Istituto centrale per la grafica: «A fronte di una quantità di pubblicazioni quasi illimitata, il repertorio iconografico da cui si attinge è molto ridotto, e tutto di carattere professionale. Quello che cambia è soprattutto la forma editoriale: la ricchezza dei volumi, i formati, il numero di immagini». Nella storia, però, non si sono sempre fotografati gli stessi soggetti: «Si assiste a una sorta di filiazione.
 
 

Ci sono immagini che una volta introdotte non escono più. Se uno studioso indaga con successo un soggetto particolare, ecco che diventa canonico». Al- tre volte però il rapporto è inverso: «Credo che in diversi casi la focalizazione di certi particolari si debba ai fotografi. Quelli, non a caso, divenuti le icone essenziali della Sistina. Il fotografo è stato sicuramente un valore aggiunto per l’analisi da parte degli storici dell’arte, i quali spesso si basano su foto per i loro studi. Un fatto che ha generato equivoci, perché le fotografie vengono ingenuamente considerate come riproduzioni oggettive, ma portano con sé equivoci, anche di tipo tecnico». Vale anche per gli osservatori comuni: «Tutta la pubblicistica ci mostra la Sistina in modo diverso rispetto alla realtà: per tagli, porzioni, inclinazione, vedute prospettiche».
 
 
 
È l’immagine in movimento quella che riesce meglio a suggerire lo spazio reale. Ma allo stesso tempo può tradire più di altre. È il caso, ad esempio, analizzato da Patrizia Cacciani, responsabile dell’Ufficio studi dell’Archivio storico del Luce: «Durante il Ventennio l’Istituto Luce ha prodotto un solo film su Michelangelo. Riguarda la sua vita e dedica qualche minuto alla Sistina. L’Unione Cinematografica Educativa nasce nel 1924 e all’inizio ha un atteggiamento di divulgazione popolare e di massa, sulla scia del primo socialismo. Ma quando il documentario viene realizzato, tra il 1932 e il 1937, questi tempi sono ormai finiti. Il film è dunque di pura propaganda fascista: Miche- langelo diventa la figura del grande italiano e sul genio si applica un transfert mussoliniano. La Sistina è piegata all’ideologia e in sottotesto il dito del Dio creatore è accostato a quello dell’uomo che decide i destini». Nel 1964 Carlo Ludovico Ragghianti sul Michelangelo sistino girò un suo “critofilm”, usando la macchina da presa come uno strumento d’indagine. Lo si può trovare su YouTube, ma bisogna cercarlo con le parole chiave giuste, perché è annegato in un mare di bana-lità: «È praticamente impossibile quantificare i video sulla Sistina. Ma la maggior parte sono una delusione» dice Tanja Michalsky, direttrice della Biblioteca Hertziana.
 
 
«È una collezione di filmini semidocumentaristici, preparati senza una coscienza del mezzo filmico, per cui spesso sono una semplice sequenza di diapositive. In molti poi propongono interpretazioni che si dichiarano innovative e rivelatrici, ma non fanno altro che rimestare luoghi comuni vecchi di trent’anni». Tutto questo fa sì che trovare in Rete filmati di qualità senza sapere che già esistono è quasi impossibile: «Questa dispersione impedisce la divulgazione del sapere. E non si vede nemmeno Michelangelo: i video spesso mostrano questi sedicenti esperti parlare dietro una scrivania. Sono loro i veri protagonisti». Ma l’esserci è l’imperativo dell’era dei social network.
 
 
 
E la Sistina è uno dei luoghi in cui un selfie non può mancare: «L’enorme produzione in digitale in gran parte si riversa sui social», dice Giovanni Fiorentino, docente di Teoria e tecnica dei media all’Università della Tuscia: «È sufficienti digitare su Instagram #cappellasistina o #sistinechapel per trovare decine e decine di migliaia di immagini. Queste, poi, in Rete hanno nuova vita: circolano, sono condivise e manipolate. È una rigenerazione della Sistina ». È un processo di risemantizzazione: «Si lavora sul canone della replicazione, ma anche sulla possibilità di giocare con forme di ricombinazione dell’immaginario collettivo consolidato che riscrivono in maniera creativa il passato. È un processo che investe l’immagine stessa oppure l’iconografia, che viene riprodotta ricontestualizzata o ricostruita in chiave parodistica». Tutti indizi della vitalità, 500 anni dopo, dell’opera di Michelangelo.
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