lunedì 1 aprile 2013
Nel Kurdistan turco, resistono comunità e monasteri millenari. Da qualche tempo i cristiani, costretti a emigrare, stanno tornando in queste terre dell'antica Mesopotamia.
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È anche l’attualità, oggi, a irrompere con forza tra le mura antiche dei monasteri del Tur Abdin. A Mor Gabriel, ma anche a Mor Abrohom, poco lontano da Midyat, o a Mor Hananyo, nei dintorni di Mardin, l’usuale silenzio è rotto da risa di bimbi e voci di ragazze. A Mor Hananyo, più conosciuto come Deyrul Zafaran, "Casa dello zafferano", per il colore giallo intenso delle sue pietre, le celle di solito occupate solo da monaci, suore e studenti da qualche mese ospitano anche alcune famiglie. Si tratta di profughi siriani, di religione cristiana, giunti qui dopo essere riusciti ad attraversare il confine, che corre a una manciata di chilometri. Dall’altra parte, infuria un’aspra battaglia tra esercito governativo, ribelli anti-Assad e militanti curdi, che si contendono il territorio chiamato "Jazeera", nel governatorato di Hasaka, incuneato tra la Turchia e l’Iraq e abitato storicamente da decine di migliaia di cristiani siriaci. Questi ultimi, puntualmente, si sono ritrovati nel mezzo del fuoco, esposti alla minaccia di rapimenti a scopo di ricatto, ma anche di violenze su base religiosa, soprattutto da quando la guerriglia contro il regime ha arruolato tra le sue fila gruppi jihadisti e fondamentalisti. Per questo i cristiani della regione, fuggiti dalle loro case, non hanno cercato rifugio nei campi profughi allestiti dal governo turco lungo il confine (il numero totale dei rifugiati siriani in Turchia ha superato i 188 mila) ma hanno raggiunto i villaggi cristiani e i monasteri del Tur Abdin. «Sostengono che nei campi si nascondono anche molti estremisti islamici, e che temono di subire abusi e ritorsioni», racconta Maria, una giovane novizia che vive a Deyrul Zafaran. «Noi abbiamo aperto loro le porte, così come hanno fatto tante famiglie locali. Ma se la situazione dovesse precipitare, rischiamo arrivi di massa, che non saremmo più in grado di gestire». Un altro "effetto collaterale" incandescente della sanguinosa crisi siriana.
«Siamo i proprietari di queste terre: vogliamo solo che ci trattino come esseri umani!». Sua beatitudine Mor Timotheos Samuel Aktas il carismatico metropolita siro-ortodosso del Tur Abdin, non riesce a trattenere l’indignazione. Lo stupendo monastero di Mor Gabriel, dove vive insieme a tre monaci e quattordici suore, rischia di dover chiudere i battenti, dopo più di 1600 anni. Midyat, Sud-est della Turchia. Siamo nel bel mezzo della regione che per la maggioranza dei suoi attuali abitanti, quasi tutti curdi, è parte integrante del Kurdistan turco. Ma questi altipiani adorni di villaggi in pietra color ocra e monasteri millenari si trovano nel cuore dell’antica Mesopotamia (il Tigri scorre a pochi chilometri da qui) e ad abitarli, ben prima dei curdi, dei turchi e degli arabi, fu il popolo siriaco. Lo stesso a cui l’umanità deve le basi del sistema giuridico e della scrittura e lo stesso che, negli ultimi duemila anni, ha custodito la fede cristiana in questi luoghi, dove ancora oggi si parla la lingua di Gesù. Mor Gabriel è adagiato sulle colline del Tur Abdin, in aramaico il "monte dei servitori di Dio", capitale spirituale dei cristiani siro-ortodossi, dove le grotte che bucano la roccia furono per secoli, e fino a pochi decenni fa, ritiro dei santi eremiti. Una terra contesa, che negli ultimi cent’anni è stata teatro di massacri e violenze incrociate: l’eccidio dei cristiani (armeni ma anche siriaci) al tempo della prima guerra mondiale e, più di recente, il conflitto sanguinoso tra l’esercito turco e la guerriglia indipendentista curda del Pkk, divampato negli anni Ottanta e Novanta.

Fu in quel periodo infernale che moltissime famiglie cristiane, strette nella morsa della violenza, decisero a malincuore di abbandonare i villaggi degli avi per cercare una nuova vita in Europa. I siriaci, che fino a cinquant’anni fa qui erano ancora 200 mila, oggi non superano le tremila persone. Mentre le case degli emigrati, lasciate vuote, venivano occupate illegalmente, l’identità cristiana del Tur Abdin era custodita nei maestosi monasteri, a cominciare proprio da Mor Gabriel, il più antico di tutti, fondato nel 397 dai santi Samuele e Simone. «Nel VII secolo questo era un centro di studi teologici e filosofici di primo piano: le lezioni, oltre che in aramaico, si impartivano in greco e persiano». A raccontarlo, con lo sguardo velato di tristezza, è il professor Isa Dogdu, che insegna l’aramaico ai 35 studenti che frequentano la scuola a Mor Gabriel. Isa, che è anche il vicepresidente della Fondazione che rappresenta il monastero, oggi teme fortemente per il futuro. Mor Gabriel è infatti al centro di una contesa legale asprissima da quando, nel 2008, tre villaggi vicini rivendicarono un vasto appezzamento di terreno da sempre appartenuto ai monaci. Una causa alla quale se ne sono aggiunte altre, intraprese dal ministero delle Foreste e dal Demanio, e che continuano a fare la spola tra il tribunale di Mardin, capoluogo della provincia, e la Corte suprema ad Ankara, tra ricorsi e cavilli esasperanti: «Si attaccano a ogni pretesto, dalla presunta occupazione illegale delle terre all’accusa di proselitismo, quando tutti sanno che non abbiamo mai violato la legge», commenta il professor Dogdu. «Qualcuno ha persino affermato che il monastero fu costruito sul terreno dove sorgeva una moschea, ma Mor Gabriel fu fondato 173 anni prima della nascita di Maometto!». La lotta dei monaci ha anche un forte valore simbolico, in un Paese che, mentre da una parte cerca di promuovere una nuova immagine di tolleranza verso le minoranze, ha visto nell’ultimo anno e mezzo due chiese, a Izmit, antica Nicea, e a Trebisonda, convertite in moschee. E persino per la celeberrima basilica di Santa Sofia a Istanbul, oggi museo, una petizione popolare chiede la stessa sorte. Lo scorso settembre, i monaci di Mor Gabriel si sono infine appellati alla Corte europea dei diritti dell’uomo, sebbene le speranze riposte in questa mossa non siano molte: «L’Europa parla tanto di diritti e di tutela delle minoranze, ma non alza la voce per difenderci!», sbotta il metropolita Aktas, logorato dal lungo braccio di ferro giudiziario. Eppure, nonostante la disillusione a volte sembri prevalere, tra le colline del Tur Abdin un piccolo, lento miracolo sta accadendo. Da qualche anno, approfittando del clima più sereno che oggi si respira nella regione, i siriaci che erano emigrati hanno cominciato a fare ritorno a casa. A Midyat quaranta famiglie si sono reinsediate e non c’è villaggio, nella zona, che non abbia assistito a qualche ritorno. Con i risparmi di questi anni, chi era stato espropriato è riuscito a ricostruirsi una casa al paese, magari per trascorrerci i mesi estivi. Aziz Demir, oggi sindaco del villaggio di Kafro, rientrato nel 2006 dopo ventun anni in Svizzera, ha fondato un’associazione per aiutare gli ex emigranti che vogliono ricominciare una vita qua. Intanto, la campana di Mor Gabriel continua a suonare, ricordando strenuamente al mondo che la convivenza di popoli e fedi, nella dura e magnifica Anatolia, non è stata cancellata. Non ancora.

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