mercoledì 30 dicembre 2015
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La Siria avrà un futuro di pace perché non si possono sconfiggere le colombe «che continuano a volare istericamente in cielo durante i bombardamenti. Come l’aereo sparisce dal cielo, patria delle colombe, così la tirannia sparirà dalla mia patria, perché le colombe ci sono alleate nel viaggio verso la libertà». La letteratura e la poesia hanno aiutato Muhammad Dibo, giornalista e scrittore siriano non ancora quarantenne, ad affrontare la mostruosa esperienza delle carceri siriane, l’angoscia, l’umiliazione, la tortura. Adesso rappresentano la stella polare delle speranze che nutre per il futuro del suo paese. Arrestato, incarcerato e torturato per aver preso parte fin dal 2011 alla rivoluzione contro il regime di Bashar al-Assad, i suoi compagni di cella l’avevano soprannominato 'il poeta perfido' perché nei lunghi periodi di detenzione recitava a memoria le poesie del mistico al-Hallaj e del grande poeta arabo al-Mutanabbi. «Farlo mi rendeva felice - ci racconta oggi dal suo esilio a Beirut - perché nei loro visi vedevo il desiderio di libertà e riuscivo, almeno in quei momenti, a farli evadere da un mondo di oppressione verso il mondo dell’amore e della poesia. La bellezza della poesia ci aiutava a dissolvere le tenebre  e a resistere al carcere e alla morte». Proprio in questi giorni è arrivato nelle librerie italiane il suo ultimo libro E se fossi morto?, pubblicato dalle edizioni Il Sirente con la traduzione di Federica Pistono, un’opera assolutamente originale, a metà strada tra il romanzo, il trattato politico e il diario intimistico, nella quale Muhammad Dibo ci offre una lunga testimonianza sulla Siria contemporanea, dalle primavere arabe alla successiva repressione, fino agli odierni interventi stranieri. Quale può essere il ruolo degli intellettuali siriani di fronte a quanto sta accadendo? «Gli intellettuali hanno un compito molto importante oggi in Siria, perché devono raccontare alla gente la verità, e devono farlo senza ambiguità. Devono spiegare al popolo la complessità di questo momento e renderlo comprensibile a tutti. Il suo compito oggi appare più importante che in passato, perché in virtù della sua cultura è il solo capace di guardare oltre la superficie, attraverso le tenebre e il caos, di vedere gli errori di un popolo e di affrontare la verità, a qualunque prezzo. L’intellettuale ha inoltre il compito di trasmettere la speranza alle persone, rassicurandole sul fatto che ciò che sta accadendo oggi non rappresenta la fine della storia. In fondo al tunnel c’è la speranza, nonostante tutte le difficoltà, e bisogna lavorare per realizzarla». Ma come può lei nutrire ancora speranza nel futuro? «Quando mi interrogano sul futuro, mi piace rispondere che vedo con pessimismo il futuro a breve termine ma sono molto ottimista per quello a lungo termine. Ciò significa che i prossimi cinque-dieci anni saranno un periodo molto duro per noi siriani, un inferno in cui ci sarà caos e assoluta mancanza di orizzonti. Una fase simile a quella che la Siria ha vissuto tra il 1920 e il 1936. Ma sono sicuro che la Siria riuscirà a rialzarsi con le proprie gambe, troverà la strada verso la libertà e il posto che merita nel mondo, nonostante il disastro di oggi. Ne sono sicuro come sono sicuro del fatto che sto scrivendo queste righe». Lei è caporedattore della testata dissidente 'Syria Untold' e collabora con numerose testate internazionali, occupandosi di attivismo civile. Ha quindi uno sguardo privilegiato sull’attualità. Come immagina il suo paese tra dieci o vent’anni? «Personalmente, sto lavorando oggi per la Siria del futuro dal momento che, nonostante la cupa disperazione e la morte, spero che la Siria, tra venti o trent’anni, sia diventato uno Stato unitario, laico e democratico. Mi auguro di raggiungere questo obiettivo, anche dopo un lungo percorso». In che modo l’Occidente dovrebbe affrontare la crisi siriana?«Innanzitutto dovrebbe impegnarsi a non mantenere in piedi la dittatura con il pretesto della lotta al Daesh, perché la sopravvivenza della dittatura implica la continuazione della guerra. Poi credo che la risposta al terrorismo dello Stato islamico non debba essere solo di natura militare, ma sia necessario anche eliminare le cause che hanno prodotto fenomeni come il Daesh». Com’è oggi, la sua vita in esilio? «Sono in Libano perché amo il mio Paese e voglio restargli vicino ma non sono stato io a scegliere l’esilio: è lui che ha scelto me. Non ho scelto il Libano, sono stati la necessità e il caso a trattenermi fino ad ora in questo paese. Ogni mattina mi chiedo cosa ci faccio qui, mentre la vita passa. Resto in Libano perché è il paese più vicino alla Siria, e da qui è possibile aiutare i miei a casa, restare in contatto con ciò che succede e con coloro che escono dal mio paese. La mia famiglia è ancora in patria, ma qui i miei familiari possono venire a trovarmi e io posso comunicare con loro. Sono qui perché rifiuto l’idea di essere un profugo costretto a elemosinare cibo, acqua e protezione, perché l’inferno costruito da Assad costringe il nostro popolo a una vita disumana. E poi, forse sono in Libano anche perché mi sono immerso nel lavoro e non ho pensato a un’altra opzione».
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