domenica 6 maggio 2018
Di fronte al caos che oggi si vive in Medio Oriente, Andrea Riccardi ripercorre l’azione del leader democristiano, fondata su dialogo e trattative fino all’estremo
La foto dell’incontro di Giulio Andreotti con Hafiz al-Asad a Damasco nel 1988

La foto dell’incontro di Giulio Andreotti con Hafiz al-Asad a Damasco nel 1988

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A volte è utile guardare al passato, per capire il presente e immaginare un mondo migliore. Lo farà il professor Andrea Riccardi, storico, fondatore della Comunità di sant’Egidio, noto anche per il suo impegno a favore della pace, il 7 maggio a Roma, con un a lectio magistralis dal titolo Giulio Andreotti d’Arabia. La Siria, guerra e dialogo in Medio Oriente.

Professore, Giulio Andreotti, del quale oggi cadono i cinque anni dalla morte, come avrebbe letto il conflitto Siriano e l’attuale crisi mediorientale?
«Non possiamo far parlare Andreotti post mortem, ma ritornare su Andreotti non è nostalgia o un atto di omaggio: è iniziare a fare storia vera del Medio Oriente, della Siria e dell’Italia. E oggi c’è bisogno di storia di fronte al fallimento di sette anni di guerra. Abbiamo bisogno di chiederci perché siamo giunti alla situazione mostruosa che abbiamo sotto i nostri occhi: un Paese distrutto, cinque milioni di rifugiati, città atterrate, Aleppo – che era un esempio di convivenza tra cristiani e musulmani – distrutta come il suo minareto degli Omayyadi».

Come siamo arrivati a questo baratro?
«Perché non siamo stati capaci di imporre la pace, quindi un gioco di rivalità e un uso spregiudicato della violenza hanno condotto a questo caos, che non si riesce più a fermare anche dopo la sconfitta del Daesh. Mi chiede come Andreotti lo giudicherebbe? Io nella mia lectio parlo soprattutto della politica di Andreotti verso la Siria negli anni Ottanta. Un momento difficilissimo, soprattutto per il Libano, con lo scontro tra israeliani e palestinesi, la strage di Sabra e Shatila, la guerra civile. Andreotti cercò di affrontarlo con le armi fini e leggere della diplomazia, convinto che bisognasse stendere una rete diplomatica e non isolare nessuno. In questo fu un “dialoghista” e un “trattativista” fino all’estremo. Del resto era una posizione coerente con il Paese che Andreotti rappresentava e la Siria, a sua volta, pur non essendo una grande potenza, era tutt’altro che irrilevante. Consideriamo, inoltre, che l’Italia degli anni Ottanta è un Paese dalle ricche risorse diplomatiche, perché c’era la politica estera del Governo italiano, quella della Santa Sede, quella del Partito comunista, molto attiva nel Sud e nell’Est del Mondo».

Per Andreotti la Siria era la chiave di volta per la pace in Medio Oriente e sposava la linea del presidente Hafiz Al- Assad sull’esigenza che ci fosse simultaneità nella risoluzione di tutti i conflitti in corso…
«Non direi che Andreotti “sposava” la linea di Assad. Lui aveva una sua linea che era quella di non escludere nessuno, soprattutto non escludere la Siria, ma anche non escludere l’Olp. Andreotti non aveva gli occhi chiusi sulla realtà siriana, conosceva le debolezze e le violenze del regime, ma era realista. Ed è significativo che nella sua prima visita in Siria, quella del 1982, Andreotti vada a trovare la comunità ebreica rimasta a Damasco. Il valore della sua politica era questo instancabile tessere rapporti restando all’interno del quadro Occidentale. Andreotti mise al servizio degli Usa e dell’intesa di pace il suo canale con Assad e veniva valorizzato dagli americani anche per questo. Andreotti, da appassionato di calcio, era cosciente che facevamo parte di una squadra, nella quale ogni giocatore ha il suo ruolo. E l’Italia nel Mediterraneo aveva un ruolo tutto particolare».

Quanto è influenzata dall’insegnamento di La Pira questa attenzione continua di Andreotti alla Terra Santa e al Medio Oriente?
«Andreotti e la Pira erano differenti ma c’era un’unità di intenti. La Pira partendo dalla profezia agganciava la realtà, Andreotti aveva un approccio realista, non amava i toni alti, ma questo non vuol dire che non avesse una carica ideale. Il profeta La Pira e il realista Andreotti si avvicinano molto in tante battaglie. Andreotti, per esempio, valorizza moltissimo gli incontri interreligiosi di La Pira. Viceversa nel loro ultimo incontro nel 1977, La Pira mo- rente dice ad Andreotti di avere pazienza, perché prima o poi le persone sarebbero arrivate al dialogo. Un’altra connessione da fare è quella con Aldo Moro, perché Andreotti continua la politica del “lodo Moro” nella lotta al terrorismo, in particolare del terrorismo palestinese. In quel tempo, nel quale i governi duravano poco, c’era però unità di visione sulla politica estera, specie nella democrazia cristiana ».

Andreotti fu solo un mediatore nell’epoca della Guerra Fredda o fu capace di intuire e muoversi nel nuovo ordine (o disordine) mondiale che ne è seguito?
«Andreotti fu un uomo della realtà, quindi è stato un uomo della Guerra Fredda, ma non è stato un “dirigente bulgaro”. Ha vissuto i confini posti dalla logica dei due blocchi in modo creativo e responsabile, capendo cose che altri non avevano capito, ovvero che sotto il ghiaccio della Guerra Fredda c’erano tanti soggetti diversi tra loro: i polacchi non erano come i sovietici e i romeni non erano i cecoslovacchi. Ma anche sulla Siria Andreotti sapeva bene che non era un Governo fantoccio e che c’era uno spazio di autonomia nelle decisioni di Assad. Inoltre Andreotti negli anni Ottanta, quando nessuno da noi sapeva chi erano gli alawiti, aveva in mente la carta georeligiosa dell’intero Medio Oriente».

Spesso si è detto che Andreotti faceva prima gli interessi del Vaticano e poi quelli dell’Italia?
«Credo che sia un errore affermare questo. C’è una visione comune, ma è la visione della ricerca della pace attraverso il dialogo. Visione che risale a Pio XII, figura ispiratrice per Andreotti come lo fu per Montini. Andreotti, che non era un post conciliare “spinto”, sentiva però molto il dialogo tra le religioni e il dialogo ecumenico. Lui stesso fondò il Trialogo. Andreotti ministro degli Esteri, ad esempio, ebbe una grande sintonia e un grande scambio con Achille Silvestrini in Segreteria di Stato, anche perché entrambi si rifacevano alla grande scuola diplomatica del cardinale Domenico Tardini. C’erano scambi e contatti continui ma mai subordinazione tra i due. Andreotti non è stato il politico dei favori al Vaticano, ma è il politico che ha avuto la stessa visione di pace e di dialogo della Santa Sede».

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