martedì 27 agosto 2019
Mihajlovic, a sorpresa, nonostante la leucemia, è già tornato sulla panchina del Bologna e si conferma, con Tabarez e Vialli, degno esponente della speciale formazione dei più "forti" della malattia
Foto Ansa

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Avevamo scritto, con un groppo in gola, che il campionato partiva con l’assenza - più acuta presenza, direbbe il poeta Attilio Bertolucci- di Sinisa Mihajlovic, fermo in ospedale a combattere la leucemia mieloide che l’ha colpito e di cui, quaranta giorni fa, aveva deciso di darne pubblica notizia. Quarantena scioccante per tutti noi tifosi del calcio vero, spiazzati dal dramma personale di questo piccolo eroe esemplare del pallone, costretto ad abbandonare il suo Bologna. Ma Sinisa, domenica pomeriggio, da “tigre” qual è, con il placet del prof. Michele Cavo (direttore del reparto di ematologia, del Sant’Orsola di Bologna), ha momentaneamente abbandonato la cameretta d’ospedale e in auto ha raggiunto il Bentegodi di Verona. Doveva esserci al debutto stagionale dei suoi ragazzi, e così è stato. E chi di voi non si è commosso nel vederlo uscire dallo spogliatoio veronese e riprendersi il suo posto sulla panchina rossoblù? Tutti. Persino Renzi e Salvini, per una sera hanno deposto le asce di guerra e hanno cessato per 90 minuti di pensare al nuovo governo, ma al ritorno, quanto mai a sorpresa di Mihajlovic. Il ritorno del «guerriero» di Arianna. Sua moglie, Arianna Rapaccioni, la donna che da sempre tiene i fili della famiglia, la madre dei loro cinque figli, la donna che riesce ad illuminare anche quei momenti più bui, che Mihajlovic, come tutti i malati, si ritrova a vivere. «I guerrieri si riconoscono da lontano. My love», ha scritto Arianna su Instagram, con una foto che la ritrae insieme a Sinisa ed entrambi mostrano il sorriso degli eterni innamorati, della vita. Una vita a rischio, certo, ma la sfida più importante per ogni uomo è quella per l’esistenza, specie quando questa è minata dalla malattia. Una prova che solo gli “uomini verticali” sanno affrontare con coraggio e con la passione contagiosa che arriva a tutto il popolo, anche a quello degli stadi. È lo stesso coraggio che Sinisa ha visto mesi fa negli occhi di Oscar Washington Tabarez, maestro di campo che alle nostre latitudini abbiamo apprezzato al Cagliari e al Milan e che una volta fatto ritorno nella sua Montevideo è diventato l’uomo in più dell’Uruguay. All’ultimo Mondiale di Russia l’abbiamo visto allenare la Celeste in carrozzina e in panchina è sempre sceso appoggiandosi alle stampelle. Si chiama sindrome di Guillain-Barrè, la neuropatia che a Tabarez è stata diagnosticata tre anni fa. È un morbo che colpisce gli arti, toglie il respiro e provoca scompensi cardiocircolatori, ma l’uomo è un Oscar del pallone, di nome e di fatto, e resiste con la saggezza dei forti. Tabarez ha una squadra, una nazione al suo fianco, gli è stato rinnovato il contratto fino al prossimo Mondiale del Qatar 2022, perché Cavani e compagni non possono stare senza il loro ct e la federcalcio uruguayana non poteva esonerare «l’esempio».

Due esempi di resistenza al male feroce arrivano da Siviglia. Il primo è Joaquim Caparros, tecnico degli andalusi subentrato nella primavera del 2018 a Bruno Machin. Stoico Caparros, nonostante le terapie e i vari problemi di tenuta, rimase fino alla fine del campionato per poi lasciare ed entrare nella fase intensiva in cui il Siviglia non l’ha lasciato da solo. Ora Caparros è rimasto all’interno dello staff tecnico del nuovo allenatore, Julen Lopetegui. L’altro caso sivigliano è del 2017: l’argentino Eduardo Berizzo, classe 1969 - come Sinisa - , operato di cancro alla prostata dopo poco più di un mese tornò a sedersi sulla panchina del club andaluso, che però, a dicembre di quella stessa stagione, non lo esentò dal licenziamento. Berizzo non mangiò il “panettone” a Siviglia, però in compenso trovò un nuovo ingaggio all’Athletic Bilbao, dove le cose non sono andate meglio, ma una volta recuperato a pieno il vigore fisico e l’entusiasmo di sempre è diventato il nuovo ct del Paraguay. Berizzo è pronto ad affrontare nuove sfide, consapevole che «quella con il cancro è stata la più difficile della mia vita». Uno scontro durissimo, le cui ferite si vedono sul volto di Mihajlovic. L’allenatore serbo porta scolpiti i segni della battaglia contro la malattia, assieme ai chili e i capelli in meno (coperti dal cappellino) per via dei cicli di chemio. Lo sguardo però è lo stesso, quello del combattente, dell’astuto figlioccio di Vujadin Boskov che non si arrende mai e che sa, come diceva il suo maestro che «chi non tira non segna». Sinisa osa, anche al cospetto della leucemia. E attenzione, non è un incosciente, né un «invasato» (accusa ingiusta e disumana che sui social in molti lanciarono alla “Iena” Nadia Toffa quando parlava del suo cancro).

Mihajlovic sa bene che la battaglia è ancora lunga e assai più dura del prossimo turno di campionato (venerdì al Dallara il derby con la Spal). Sinisa sa anche che nella Lazio, in cui ha giocato e vinto, da sempre aleggia l’angelo protettore di Tommaso Maestrelli, l’allenatore che vinse il primo scudetto biancazzurro, stagione 1973-’74, e due anni dopo ( a 54 anni) fu stroncato dal cancro. Un avversario, il cancro (al pancreas) che marca a uomo l’ex bomber della Nazionale Gianluca Vialli. Una resistenza grintosa come da sempre ci aveva abituati in campo, e motivata da un obiettivo vitale - specie nei giorni dell’abbandono - «Non volevo morire prima di portare le mie figlie all’altare». È uno dei tanti motivi comuni tra Vialli - alle prese con la scalata per “riprendersi” la Samp - e l’amico Sinisa, il quale con quel rientro in scena di domenica sera ha seminato speranza. Non solo per sé, ma speranza per tutti coloro che in questo preciso istante si trovano in un reparto d’ospedale a dover affrontare la sua stessa malattia. Sono formazioni anonime, di adulti come Sinisa, ma sempre più spesso si segnalano casi di malati di leucemia in età da scuola calcio. Ragazzini che non finiscono sui giornali e non passano quasi mai in tv, ma che la loro “partita” - dal Bambin Gesù di Roma al Chianelli di Perugia, dal Gaslini di Genova al San Gerardo di Monza fino al Sant’Orsola di Bologna (e ci scusiamo per tutti quei centri specializzati che fanno “miracoli” per far guarire questi piccoli angeli caduti in volo) - se la giocano, in silenzio.

Lo stesso silenzio in cui da oggi fino a domenica prossima tornerà a respirare il guerriero Sinisa. Il difensore indomito che ha stoppato decine di avversari in campo (Vialli compreso), e fuori, nel suo Paese, ha visto cadere le bombe della guerra fratricida dell’ex Jugoslavia. Ha visto morire uomini, donne e bambini («e non di malattia»), ha visto amici e parenti scappare in cerca di un riparo e di un po’ di pace. Sinisa conosce l’esodo dei migranti, rispetta tutti, crede e prega quel Dio che sa che è l’unico vero gancio dal Cielo che ora può portarlo fuori da quest’incubo. Un incubo che però sta vivendo con il supporto di una famiglia sempre più allargata, come dimostra la testimonianza di affetto collettivo e incondizionato dello stadio di Verona. «You’ll never walk alone», recita lo storico inno d’incoraggiamento dei tifosi del Liverpool ai propri beniami. E in questo momento, quell’inno vale più che mai per Mihajlovic: «Sinisa, non camminerai mai da solo».

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