giovedì 21 ottobre 2010
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Poco dopo le 23 del 14 marzo 1941 uno Swordfish decollato da una portaerei inglese in missione nello Ionio sganciava un siluro contro una nave italiana alla fonda nella rada di Valona, Albania. Rapidamente l’unità colava a picco trascinando con sé venticinque persone, tra le quali tre crocerossine. Il siluro aveva squarciato una fiancata della nave ospedale Po, centotrenta metri di lunghezza e sedici di larghezza per circa settemila tonnellate di stazza: varata a Trieste nel 1911 e requisita allo scoppio della guerra, nel corso di quattordici crociere nel Mediterraneo aveva rimpatriato dai vari fronti del conflitto oltre seimila militari feriti o gravemente malati. Della nave, adagiata su un fondale di poco più di trenta metri, si era persa memoria dopo che, con la ritorno della pace, l’Albania si era chiusa a riccio per difendere strenuamente la sua rigida ortodossia comunista anche a costo di raffreddare i rapporti con Mosca avvicinandosi a Pechino. Solo quattro anni fa una squadra italiana impegnata in zona alla ricerca dei resti della regia nave Regina Margherita aveva rinvenuto uno scafo ritenuto quello della Po «in perfetto assetto di navigazione e quasi intatto», afferma chi ha avuto occasione di esplorare quello specchio di mare. Ora un servizio in esclusiva della rivista "Archeologia viva" dell’editore Giunti dà conto della meticolosa ricognizione sul relitto compiuta dai sub dell’associazione Asso (Archeologia subacquea, speleologia, organizzazione) nell’ambito dell’attività del dipartimento di Scienze umane dell’Università di Foggia. Una chiara attribuzione di identità alla sfortunata nave affondata davanti a Valona è finalmente possibile, ma questo riapre gli interrogativi sulle modalità e sugli obiettivi reali del siluramento della Po. Fu un fatto accidentale? Oppure si trattò di atto deliberato? All’indomani della tragedia si era affacciata l’ipotesi che gli inglesi avessero decrittato un messaggio italiano che conteneva, nella lista delle persone ospitate a bordo, un nome capace di far sobbalzare gli uomini dell’intelligence londinese, i vertici dell’Ammiragliato e gli stessi responsabili del governo di sua maestà. Un nome che scottava, Mussolini. Affondando la nave – e poco importava a quel punto che essa fosse adibita ad ospedale – c’era la possibilità di eliminare il nemico più pericoloso dopo Hitler. Ovviamente il Duce stava al sicuro altrove. Successivamente si affermò che la Po quella notte di marzo era stata oscurata per non rendere visibili con le sue luci altre unità italiane presenti nella baia. Secondo la Convenzione di Ginevra una nave ospedale, dipinta di bianco, deve essere sempre illuminata nottetempo e recare ben visibili le croci rosse che ne testimoniano la neutralità rispetto alle parti belligeranti. A Valona il 14 marzo 1941 qualcosa con funzionò. Le luci forse erano spente mentre il duce – questo è certo – si trovava ben lontano dalle coste albanesi. È ipotizzabile una volontà esplicita del pilota dello Swordfish di colpire un natante protetto delle convenzioni internazionali? In realtà la storia della guerra nel Mediterraneo è costellata di attacchi a navi ospedale italiane da parte degli inglesi prima e degli inglesi e degli americani poi, così come nel Mare del Nord, nella Manica e nell’Atlantico i siluri tedeschi spesso non avevano riguardi nei confronti di unità analoghe britanniche. Stessa sorte toccava frequentemente agli idrovolanti italiani impegnati nel recupero dei piloti caduti in mare, per non dire delle direttive impartite da Londra durante la battaglia d’Inghilterra: sparare agli aerei tedeschi che cercavano di strappare alle acque della Manica gli equipaggi precipitati. Se la guerra è sempre sporca, determinazioni siffatte la rendono ancora più inumana e odiosa, e va detto che in genere gli aviatori britannici non tenevano conto degli ordini, consci del fatto che gli idrovolanti nemici con le insegna della Croce rossa raccoglievano in mare anche uomini della Raf a loro volta abbattuti. Ma torniamo all’affondamento della Po. È verosimile che l’intelligence londinese una dritta l’avesse ricevuta, è ipotizzabile che un nome capace di mandare in fibrillazione l’intero apparato di spionaggio fosse arrivato oltre Manica. Non quello di Mussolini, ma quello di un personaggio chiave del sistema di potere fascista, Ciano. Captato il nome, e fatto due più due uguale quattro (Galeazzo Ciano, genero del Duce e ministro degli Esteri fino al febbraio 1943, era stato uno dei più accaniti fautori dell’occupazione italiana dell’Albania) è possibile che Londra abbia ritenuto che sulla nave ospedale si celasse l’allora uomo forte del regime, il delfino di Mussolini impegnato in una qualche missione segreta. Un siluro ben piazzato poteva risolvere, dal punto di vista dell’Ammiragliato, molti problemi. Ciano, dunque. In effetti sulla Po una persona chiamata Ciano c’era, una signora registrata con il cognome del marito, come da prassi prima della riforma del diritto di famiglia. Edda Ciano, figlia del Duce e moglie di Galeazzo dal 1930, svolgeva onorevolmente a bordo la sua missione di crocerossina con altre colleghe. Mentre l’unità affondava – raccontarono poi i superstiti – risuonavano in plancia domande angoscianti accompagnate da ordini secchi, perentori impartiti dagli ufficiali: «Dov’è la sorella Ciano? Salvate la sorella Ciano.Aiutatela, soccorretela in fretta». Edda Ciano nata Mussolini, all’epoca trentenne, venne miracolosamente tratta in salvo, ma nella tragedia persero la vita le crocerossine Maria Federici, Wanda Secchi ed Ennia Tramontani, successivamente decorate di medaglia d’oro alla memoria. I loro corpi furono recuperati alcuni giorni dopo da sommozzatori della Regia Marina. Colpa di un accidentale evento bellico, di una volontà barbara di sparare letteralmente sulla Croce rossa, di un oscuramento che non doveva esserci o di un nome "sensibile" intercettato dalla rete di spionaggio, resta il fatto che in pochi minuti una nave ospedale andò perduta. Toccherà poi alla Orlando, alla San Giusto, alla Città di Trapani, alla Sicilia... La guerra sporca, sleale, irrispettosa delle convenzioni internazionali, vedrà ancora il 15 maggio 1943, a meno di quattro mesi dalla firma dell’armistizio, l’attacco alla Principessa Giovanna da parte di aerei Usa al largo di Tunisi, in pieno giorno e quindi in condizioni di perfetta visibilità. Ma ormai l’Italia era in ginocchio.
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