«Sono nato fisicamente nella prima, intellettualmente e spiritualmente nella seconda », così Gino Severini rammentava Cortona e Parigi, le due città di fatto agli antipodi - una, un affascinante borgo della Toscana con una memorabile storia artistica alle spalle; l’altra, l’abbagliante capitale della pittura d’inizio XX secolo - verso le quali egli manterrà per tutta la vita un profondo legame affettivo e di vicinanza ideale. A Cortona l’artista aveva visto la luce il 7 aprile 1883 e qui tornerà, spesso, a respirare l’aria provinciale ma corroborante della Val di Chiana. Parigi rappresenterà invece la sua seconda patria, dove lavorerà e soggiornerà a lungo, spegnendosi nell’appartamento di rue Schoelcher 11, un palazzo di Montparnasse in cui, come ricorda una targa di marmo, ha dimorato anche Simone de Beauvoir, esattamente mezzo secolo fa: il 26 febbraio 1966. Nell’aprile di quello stesso anno, le spoglie saranno traslate a Cortona. C’è però un’altra città, fondamentale per l’evoluzione pittorica ed esistenziale di Severini: Roma, dove si trasferisce giovanissimo al passaggio del secolo per imprimere una svolta alla propria vocazione artistica, frequentando a Porta Pinciana lo studio del pittore Giacomo Balla, all’epoca tra i principali esponenti del Divisionismo. Nella capitale conosce Umberto Boccioni, insieme al quale nel 1903 segue le lezioni della Scuola libera del nudo, incontrando lì un altro allievo di Balla: Mario Sironi. È la nascita di un indissolubile sodalizio, che non verrà meno nemmeno dopo la decisione di Gino di raggiungere, nel 1906, Parigi. La convinzione si sviluppa in lui in maniera spontanea, poiché la
Ville Lumière è un luogo dalle molteplici possibilità, paradiso e inferno secondo le testimonianze dirette e gli articoli della stampa, per i giovani artisti assetati delle novità prodotte dalle avanguardie all’ombra della Tour Eiffel. Ci sono poi i racconti del divisionista Balla, che al principio del ’900 ha trascorso qualche mese in Francia per confrontarsi con i lavori dei puntinisti Seurat, Signac e Cross. Prende così avvio l’avventura parigina di Severini, il più francese dei futuristi italiani. Gli inizi si appuntano attorno alle ricerche dei pittori post-impressionisti e alle tematiche avanzate dal
Pointillisme di Signac, parallele alla sua originaria visione divisionista e che sfoceranno in opere come Primavera a Montmartre del 1909. Poi la conoscenza folgorante e il rapporto di amicizia con Juan Gris, Picasso e Braque, padri fondatori e propugnatori del Cubismo, oltre che con i poeti Guillaume Apollinaire, Max Jacob e Paul Fort, di cui sposerà nel 1913 la figlia Jeanne. È la fertile stagione primaverile di quello che Theo van Doesburg definirà il «cusbismo psichico» di Severini, che coniuga l’approccio classico e scientifico, derivato dalle cognizioni di prospettiva, luce e colore, a soggetti in movimento quali caleidoscopiche ballerine e dinamiche figure della commedia dell’arte, su un fondo vibrante. Gli articoli pubblicati tra il 1917 e il ’18 sulla rivista “De Stijl” e intitolati
La peinture d’avant-garde, sottolineano l’elaborazione teorica mai venuta meno nel-l’artista che frequenta i cabaret e lavora senza sosta nel suo atelier dell’impasse de Guelma, a due passi da Pigalle. Nel 1910, raccogliendo l’invito di Marinetti ad aderire al nuovo movimento, è tra i sottoscrittori con Boccioni, Carrà, Balla e Russolo, del
Manifesto dei pittori futuristi. Due anni dopo, raggiunto a Parigi da Boccioni e Carrà, Severini organizza la mostra di debutto dei futuristi alla Bernheim-Jeune, una delle gallerie storiche degli impressionisti. Le sue opere partecipano alle esposizioni futuriste in Europa e America, mentre del 1913 è la prima personale di Gino alla Marlborough Gallery di Londra, presentata successivamente alla galleria Der Sturm di Berlino. Il ruolo che Severini si ritaglia, tramite i rapporti di reciproca stima e amicizia, è di collegamento tra gli ambienti cubisti d’oltralpe e i futuristi italiani. Meno coinvolto dalle poetiche roboanti della macchina e della mitraglia, care a Marinetti, il suo universo pittorico è più orientato al movimento e alla danza, espressi in capolavori come
Geroglifico dinamico del bal tabarin, Ballerina in blu (entrambi del 1912),
La danza del pan pan Monico (1911). Ed è lui, trascorsa l’ebbrezza marinettiana, a tessere insieme il dinamismo futurista e la scomposizione e ricomposizione dei piani cubisti, prefigurando e contribuendo fattivamente a imporre quel linguaggio artistico che interesserà l’intera Europa, denominato Cubofuturismo. Dal 1920 Severini fa la spola tra Parigi e Roma, lavorando al suo «cubismo psichico» fino all’anno successivo, allorché con la pubblicazione del saggio
Du cubisme au classicisme riterrà ormai conclusa questa fase, optando per una pittura di stampo “neoclassico” con influssi metafisici. È quel «ritorno al mestiere», auspicato nel 1919 da Giorgio de Chirico dalle pagine di “Valori plastici”. Appena superati i quarant’anni, subentra poi nell’animo di Severini una singolare crisi religiosa, che lo condurrà per un decennio - dal 1924 al ’34 - a occuparsi pressoché esclusivamente di arte sacra, cimentandosi nelle tecniche dell’affresco e del mosaico. Nel ’35 il Gran premio per la pittura alla Biennale di Venezia, con un’intera sala dedicata a lui. E, durante la maturità, nello studio di rue Schoelcher avverrà un parziale revival del periodo cubofuturista, contraddistinto da figure segmentate dalla luce. Il Musée d’Orsay organizzò nel 2011 la retrospettiva
Severini. Futuriste et néoclassique, allestita in seguito al Mart di Rovereto, per delineare in modo più o meno compiuto la versatilità e le inquietudini di un artista chiave del Novecento europeo. «Nella pittura moderna siamo ripartiti andando a cercare Balla e Severini», ha confessato Piero Dorazio (1927-2005), proprio per ribadire l’importanza che hanno avuto nella storia dell’arte del XX secolo le sperimentazioni, tra classicismo e cubismo psichico, tra Cortona e Parigi, di Severini.