giovedì 9 marzo 2017
L'Italia con i teleromanzi ha inventato la serialità nel piccolo schermo. Altri tempi e altri ritmi
Il protagonista de "Il commissario Montalbano". La puntata di lunedì scorso ha battuto i record delle fiction italiane

Il protagonista de "Il commissario Montalbano". La puntata di lunedì scorso ha battuto i record delle fiction italiane

COMMENTA E CONDIVIDI

Erano più di undici milioni, lunedì sera, gli italiani davanti allo schermo per seguire su Rai 1 Come voleva la prassi, il trentesimo episodio della serie tratta dai romanzi di Andrea Camilleri e interpretata da Luca Zingaretti, l’ultimo, finora, di una storia di continui trionfi di pubblico e critica cominciata il 6 maggio del 1999, con un ampio seguito anche all’estero. Montalbano è una fiction seriale ricavata da un’opera letteraria, è l’erede, quindi, di quelli che una volta si chiamavano “teleromanzi” e, all’inizio, andavano in onda a puntate sul Programma Nazionale della Rai. Il primo in assoluto nella storia della televisione italiana è stato Il dottor Antonio, un adattamento dell’omonimo romanzo risorgimentale scritto da Giovanni Ruffini nel 1855.

Trasmesso ogni martedì dal 16 novembre al 7 dicembre del 1954, era diretto da Alberto Casella, registrato negli studi di Napoli e interpretato, tra gli altri, da Edmonda Aldini e dai giovanissimi Corrado Pani e Alighiero Noschese. Fu inaugurata così la lunga storia delle “serie televisive”, un genere di grande potenza mediatica, che sfida il cinema e vanta, in Italia, ben due padri fondatori, dalle solide e distinte radici: Anton Giulio Majano e Sandro Bolchi. A loro si deve gran parte di quei popolarissimi rifacimenti letterari a soggetto storico, drammatico o poliziesco, dai quali discendono gli “originali televisivi” (cioè quelli scritti apposta e non tratti da opere già esistenti) che hanno generato, a loro volta, le moderne fiction a episodi di cui sono zeppi i palinsesti di tutte le emittenti tv. Majano cominciò la sua sterminata produzione (94 titoli) nel 1955 con Piccole donne, per proseguire poi con Jane Eyre (1957), L’isola del tesoro (1959), Delitto e castigo (1963), La cittadella (1964), Il tenente Sheridan e David Coppefield (1965), La freccia nera (1968), ...E le stelle stanno a guardare (1971), fino a Strada senza uscita, del 1986, da un racconto di Martin Russel, per citare i più famosi. Un maestro da cui molti registi di oggi hanno imparato. «Aveva la capacità di orchestrare enormi narrazioni, di concertare decine di personaggi, centinaia di comparse, padroneggiando set complicati che comprendevano decine di ambienti, migliaia di metri quadrati» commenta Mario Gerosa, autore del libro Anton Giulio Majano, il regista dei due mondi (Edizioni Falsopiano, pagine 288, euro 20,00). Ricostruzioni accurate e meticolose. «Il pubblico adorava queste grandi opere che mobilitavano poderose maestranze e cast stellari con i più bei nomi del teatro e del cinema di allora, come Alberto Lupo, Luigi Vannucchi, Ilaria Occhini, Loretta Goggi e Giancarlo Giannini.

Lo apprezzava anche Luchino Visconti, che non si perdeva uno degli sceneggiati di Majano» racconta Gerosa. Ma perché le trasposizioni televisive dei classici venivano “spalmate” in quattro, cinque, spesso anche otto puntate? «Majano non voleva sacrificare nulla dei romanzi dei quali faceva trasposizioni televisive, le sue non erano riduzioni, dovevano avere lo stesso respiro delle originali opere letterarie; come amava ripetere, i suoi teleromanzi equivalevano a tavolate imbandite con tutto il meglio che si potesse desiderare. Un’ottica slow, insomma, un ritmo da adagio musicale...». La sua era una poetica di stampo cinematografico che si distingueva dallo stile più puramente teatrale, ma robustissimo, di Bolchi: basti pensare ai suoi Il mulino del Po (1963 e 1971), I miserabili( 1964), I promessi sposi (1967), I fratelli Karamazov( 1969) e Anna Karenina (1974). Ma i tempi sono cambiati. «Oggi le serie tv, tranne rare eccezioni, sono diventate una moda, mi sembrano un prodotto sopravvalutato e spesso un po’ banalotto» sostiene Giorgio Simonelli, docente di Storia della televisione all’Università Cattolica di Milano e critico televisivo. A parte gli sceneggiati di Majano e Bolchi, Simonelli ricorda una miniserie del 1984 che ha avuto il merito di distinguersi per qualità proprio negli anni dell’invasione americana delle soap opera – nacquero allora, infatti, i fenomeni Dallas e Dinasty. Si tratta di ...E la vita continua, di Dino Risi, con Virna Lisi, Jean-Pierre Marielle e Vittorio Mezzogiorno. «Non ebbe grande fortuna in termini di ascolti ma fu il primo esempio di saga familiare italiana, ben fatta, come in seguito sarà Raccontami( benché adattamento di un format spagnolo) e, per certi aspetti, anche Un medico in famiglia – sostiene Simonelli – una serie che, nonostante qualche delusione nelle passate stagioni ora sembra riprendere quota».

E poi ci sono gli altri evergreen come il già citato Commissario Montalbano e Don Matteo. Perché hanno così tanto successo? E come funziona il meccanismo della serialità? «Ci si identifica nei personaggi e nelle situazioni le quali rappresentano un mondo possibile, qualcosa che ci riguarda, e inoltre generano empatia: Montalbano diventa un amico, un parente.... E poi – prosegue il critico televisivo – entra in gioco la logica dell’appuntamento, non ci basta mai, vogliamo sempre altre storie, come nei romanzi d’appendice dell’Ottocento ». E la mega produzione anglo-italiana, molto discussa, de I Medici, trasmessa da Rai 1 tra ottobre e novembre dell’anno scorso? «Non l’ho apprezzata molto – dice Simonelli – ha mostrato difetti drammaturgici, ma l’impatto nel Paese è stato forte ed è senz’altro positivo che gli italiani abbiano discusso se è stata una serie bella oppure no....».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: