lunedì 9 febbraio 2009
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Se l’universo fosse un tendone, loro sarebbero gli angeli: volteggiando a mezz’aria, senz’ali e spesso senza rete, senza sesso – muscoli e grazia nello stesso corpo –, sopra un mondo di contorsionisti e domatori, pagliacci, equilibristi, nani e ballerine. Trapezio! L’unica figura geometrica di cui tutti (almeno quando sono al circo) considerano una dimensione sola: l’altezza. Perché il resto è coraggio, allenamento, coordinazione, forse abitudine ma sicuramente passione. L’attrezzo più affascinante dello chapiteau compie proprio quest’anno il suo secolo e mezzo, essendo stato presentato per la prima volta al Cirque Napoléon a Parigi da Jules Léotard nel 1859; e nemmeno un grammo di polvere sembra aver intaccato le sue cromature, sempre smaglianti. Già è ben curioso che una specialità tanto connaturata alle arti della pista, in realtà, non solo abbia un’origine così recente, ma se ne conosca addirittura paternità e data di nascita. Eppure «l’arte del trapezio – assicura Raffaele De Ritis nella sua recentissima Storia del circo – era inesistente prima dei grandi circhi stabili di metà Ottocento. L’unico precedente nel teatro di fiera era la "corda volante", variante del repertorio di molti danzatori sulla fune: attaccata alle due estremità ad un’altezza media, consentiva semplici figure ginniche o contorsioni». Ma ci voleva un atleta, appunto il ventunenne Léotard (che molto più tardi parteciperà anche alle prime corse in velocipede e il cui nome è usato ancor oggi per designare un modello di tuta aderente usata da danzatori e acrobati), per arrivare alla versione che tuttora conosciamo, il trapezio cosiddetto «volante» od oscillante – quello fisso, infatti, risultava in parte già usato per alcuni numeri a bassa quota, oppure per evoluzioni all’aperto appeso a mongolfiere. Merito della scoperta va anche al padre del giovane Jules, che nella sua palestra di Tolosa aveva piazzato quella varietà altalenante delle sbarre fisse – attrezzo ben noto ai ginnasti – e lì il figlio aveva imparato a «volare» da un trapezio all’altro. Notato poi e scritturato da un talent scout circense della capitale, Léotard debuttò con la sua Course aux trapezes il 12 (qualcuno dice il 30) novembre 1859, in quello che oggi è il Cirque d’Hiver parigino. «Il successo è enorme e immediato, senza precedenti – racconta Alessandro Serena, docente di Storia dello spettacolo circense all’università di Milano e recente autore di un’altra Storia del circo –. Gli emuli sono decine. Il numero di Léotard è in realtà diverso dagli odierni esercizi: egli lavora da solo, senza porteur (così si chiama il trapezista che resta agganciato con le gambe e a testa in giù al secondo trapezio, pronto ad afferrare l’agile dopo il suo salto nel vuoto, ndr); il suo attrezzo si compone di tre trapezi, che l’artista utilizza oscillando sull’uno e riafferrandosi all’altro, alternativamente». Comunque ormai la via è aperta ai perfezionamenti e alle varianti, che infatti non mancheranno (una delle principali è il cosiddetto «trapezio Washington», con un appoggio circolare per stare in verticale sulla testa), né sono ancora terminate. Il trapezio diventa imprescindibile nel programma di qualunque tendone, almeno alla pari con i numeri equestri, i giocolieri, i clown e i domatori. «La grande conquista del circo tardo-ottocentesco – annota ancora De Ritis – doveva essere un’altra: il brivido di potersi librare nel vuoto... Entro la fine del secolo, il trapezio sostituirà l’arte equestre nei favori del pubblico di tutto il mondo». Léotard – che si esibisce protetto da una sorta di passerella coperta da un materasso – diventa una star; gira i circhi di tutt’Europa, guadagna la cifra favolosa di 500 franchi per sera e i critici (in prima fila il famoso letterato e giornalista Edmond de Goncourt) vanno in visibilio per i suoi passaggi, tra cui un salto mortale. Ma presto gli specialisti saranno in grado di fare assai di meglio: già nel 1868 siamo al salto doppio e nel 1909 al triplo, anche se solo nel 1920 il messicano Alfredo Codona, in troupe con fratello e sorella, sarà il primo a compierlo regolarmente in ogni spettacolo; nel 1982 è ancora un messicano, il diciottenne Miguel Vazquez, a riuscire per primo nel quadruplo («La più importante conquista umana – sostengono i critici – da quando esiste l’acrobazia»). Tra gli italiani i nomi «mitici» del settore sono Genesio Amadori, Enzo Cardona, Cesare Togni, Ketty Jarz, Vivien Larible. «Senza rete»: proprio grazie ai trapezisti l’espressione è diventata sinonimo di rischio assoluto, senza possibilità di errore. Ma pochi sanno che anche cadere sulla rete di protezione non è proprio un tuffo gradevole e «sicuro», se non si sa come farlo: è stato calcolato infatti che il corpo di un trapezista, in certi momenti del «volo», può raggiungere i 90 km all’ora... Ha notato il giornalista specializzato Ruggero Leonardi in un recente numero di Circo, rivista dell’Ente Circhi italiano: «La pista circolare, vista dall’alto, è diversa da come è vista dal basso. Ci sono le piste che offrono un terreno perfettamente orizzontale e altre che invece inclinano da una parte e dall’altra. E a questo punto, il delicato gioco di equilibrio tra il trapezio dell’agile e quello del porteur è rimesso in discussione, e i punti di riferimento cuciti sulla rete con fili di colore diverso, non visibili al pubblico ma ben visibili all’acrobata, diventano ingannevoli. Quindi bisogna improvvisare, e allungare o accorciare il salto così da finire addosso al porteur né troppo lontano da lui». Il trapezio però non è solo exploit, record, forza, rischio. E anche grazia e poesia, come forse dimostrano meglio altre aeree evoluzioni, carpiature, avvitamenti – tuttavia per il solito meno apprezzati dal pubblico. Tali caratteristiche vengono esaltate soprattutto nella specialità del trapezio fisso, o singolo, che non per nulla è una prerogativa soprattutto femminile (persino Barbette, «reginetta americana dell’aria» che piacque anche a Jean Cocteau, era in realtà un uomo che si esibiva travestito da donna). E forse possono essere loro accostate alcune varianti moderne, come le evoluzioni oggi di gran moda al cosiddetto «tessuto aereo» (una sorta di striscia elastica appesa verticalmente allo chapiteau e che permette al corpo dell’artista di trasformarsi in elegante yo-yo), oppure le accurate e grandiose coreografie volanti proposte in vari allestimenti del Cirque du Soleil. Ma forse la novità più interessante è costituita dagli spettacoli dedicati esclusivamente agli aeralisti, come l’africano Cirque Baobab (artisti della Guinea che si esibiscono su alberi veri) o i gruppi francesi Tout Fou To Fly («Tutto pazzo per il volo») e Les Arts Sauts (qualcosa come «Gli arti-salti»): il primo si autodefinisce «circo aereo» e propone potenti scenografie all’aperto, i secondi – hanno da poco sciolto la compagnia – si esibivano addirittura in 13 sotto un’originale bolla nella quale gli spettatori avevano a disposizione una sorta d’amaca per godersi meglio lo spettacolo... E così il vecchio trapezio sembra tornato alla fantasia e agli ondeggiamenti degli inizi.
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