mercoledì 22 gennaio 2020
Nelle sale il docufilm “Scherza con i fanti” di Pannone e Sparagna: «Piccola storia degli italiani in divisa e di come abbiamo imparato a non avere paura della pace»
Una sequenza del docufilm “Scherza con i fanti” di Ambrogio Sparagna e Gianfranco Pannone

Una sequenza del docufilm “Scherza con i fanti” di Ambrogio Sparagna e Gianfranco Pannone

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Per noi è una gran gioia che in questi giorni sia nelle sale, distribuito da Istituto Luce Cinecitta, il nostro, mio e di Gianfranco Pannone, Scherza con i fanti, dopo la bella accoglienza alle ultime Giornate degli autori a Venezia e i vari premi che sono seguiti. Quello che abbiamo colto, portando nell’autunno scorso la nostra ultima fatica per diversi festival in Italia e all’estero, è una partecipazione emotiva che attraversa età e classi sociali diverse; come se Scherza con i fanti andasse a estrarre da ciascuno di noi un dolore non solo nostro, ma di un passato famigliare e collettivo che pure ci appartiene. Le guerre, che ovunque portano dolore e distruzione, a noi europei sembrano lontane, ma un po’ tutti nel profondo sappiamo che non è così. E i nuovi “venti di guerra”, in Libia come in Medio Oriente e in tante altre parti del mondo, che incombono su di noi, non aiutano certo l’illusoria aria serena dell’Ovest. Ecco perché è importante non lasciarsi alle spalle il passato, ma serbarne la memoria. La cosa può sembrare a taluni inutile e fastidiosa, ma noi abbiamo voluto realizzare questo film perché pensiamo realmente che l’Italia, con tutto il suo passato di invasioni e di violenze, oggi abbia molto da insegnare al mondo. Scherza con i fanti raccoglie canti popolari, diari di guerra, storie di ieri e di oggi, con l’ambizione di raccontare, senza mai rinunciare all’umorismo, il sofferto rapporto del popolo italiano con il mondo militare e più ampiamente il potere, fino a coinvolgere un amor patrio, che, retorica a parte, ai più arriva estraneo. Sì, l’Italia ha da insegnare molto al mondo in questo senso. Lo dicono anzitutto i suoi canti popolari, dove spesso, esclusa la scellerata parabola del fascismo, piuttosto che l’esaltazione dell’andare in guerra, viene trasmesso il senso dell’allontanamento dai propri cari, nella quasi certezza che si diventerà carne da macello. D’altro canto, lungo i primi decenni del Novecento, l’Italia è stata principalmente un Paese di contadini e pastori. E si sa che allontanare il “cafone” dalla propria terra, inviandolo per giunta in luoghi lontani, estranei, com’era spesso, ad esempio, per la gente del Sud, significa anche mandare in rovina una famiglia. Il sentimento cristiano che, malgrado i repentini cambiamenti culturali e sociali dell’ultimi decenni, accompagna da secoli la storia degli italiani, ha fatto il resto. Ecco il perché della scelta, nel film, di un soldato testimone dei nostri giorni, Vincenzo Marasco, che il suo diario lo ha scritto nel 1999 in Kosovo, dov’era in missione. Vincenzo si sente un soldato della pace, ma al tempo stesso dichiara che lui morirebbe per la Patria. Si potrebbe dire un soldato ideale, fiero e generoso, il buon soldato di letteraria memoria. Ma Vincenzo è un uomo in carne e ossa e sa anche piangere sui suoi ricordi senza vergognarsene. Oltre certi luoghi comuni, è un autentico italiano, sentimentale e riflessivo. Di sicuro, come lui stesso dichiara, oggi ben poco condizionato da certe cecità di chi sta in alto, e che in passato non trattava di sicuro i soldati come essere umani. UP na storia complessa quella italiana, dicevamo, e per questo avvincente. Il valtellinese Carlo Margolfo, bersagliere nel Regio Esercito all’indomani dell’unità d’Italia, altro personaggio dei nostri diari di guerra, non esita a scrivere che «è meglio fare il soldato che morire». E lui lo sapeva bene, visto che aveva combattuto anche per gli austro-ungarici. Si andava in guerra soprattutto per fame. E che dire dello struggente canto siciliano La partenza proposto sulle immagini dei carrarmati abbandonati nel deserto di El Alamein? «Piangono gli occhi miei lacrime amare / la lontananza che mi fa morire…». E ancora, del bellissimo canto friulano Ai preat dove una donna intona: «Che il Signor fermi la guerra / che il mio amato torni al paese », implorando Dio e i Santi con forza, senza badare alla Ragion di Stato, che sente lontana, persino ostile.

La sofferenza non è “piagnona”, ma concreta, viva. Gli italiani spesso non sapevano neanche perché andavano in guerra. E ad accompagnarli era un altisonante inno alla Patria che ben poco sentivano loro. Il contrario di ciò che invece sente oggi il nostro Vincenzo, soldato consapevole, che al fucile 'preferisce' la sua amata zampogna con cui va in giro nei paesi dell’Area Vesuviana a suonare le Novene di Natale, ma è pronto comunque a immolarsi per il proprio Paese («Io per la patria morirei », dichiara deciso nel film). E che sente anche uno scrittore di pregio come Ferruccio Parazzoli, che da Piazzale Loreto, a Milano, dove abita da lungo tempo, nel nostro film riflette sul Mussolini dileggiato e poi messo a testa in giù da quegli stessi italiani che poco tempo prima lo avevano venerato come un dio. Il fascino indubbio dei materiali d’archivio conservati all’Istituto Luce fa il resto. Spesso si tratta di cinegiornali e documentari di propaganda, vero e proprio contrappunto ai diari e alle canzoni che abbiamo scelto. Come può avere accolto così tanta bellezza tanta insopportabile violenza? Ci siamo chiesti. E le nostre risposte, oltre che con le immagini di paesaggi al tempo stesso ridenti e drammatiche, le abbiamo trovate in alcune vicende umane che portano in sé fierezza e dolore, persino tracotanza a cui segue un ripensamento profondamente umano. Come è nel caso dell’autista del Regio Esercito Elvio Cardarelli, che da Viterbo parte giovane fascista per l’Etiopia, sul cui suolo l’Italia combatte la sua ultima guerra coloniale, e dal cui diario si fa avanti un po’ per volta, mese per mese, l’amarezza e anche il disgusto verso le violenze dei gas e dei lanciafiamme italiani ai danni delle popolazioni locali. Cardarelli, poi, morirà per i troppi stenti subiti pochi giorni dopo il suo rientro in Italia. Apre il cuore anche il diario della partigiana cattolica Rosetta Solari, studentessa universitaria della Val di Taro, sull’Appennino parmigiano, che nel 1944-45 combatte due guerre: una contro i nazifascisti, l’altra contro gli stessi partigiani suoi commilitoni, che non la volevano con loro nei panni di un soldato-donna, preferendola relegata al ruolo gregario di semplice staffetta. Una sola frase per lei: quando la terribile guerra è doveroso farla.

Con il nostro prezioso montatore, Angelo Musciagna, non è stato facile mettere insieme tutte queste cose. «Scherza con i fanti» lo abbiamo montato, smontato e rimontato più volte, certi che un tema così complesso come quello del contraddittorio e diffidente sentimento degli italiani verso il mondo militare, la guerra e più in genere il potere, avesse bisogno di un approccio quanto più possibile semplice e diretto. Gli italiani, proprio perché forti di una storia complessa, nel tempo hanno imparato a difendersi. Una forza profonda, che crediamo sia dura a morire, perché più di duemila anni di storia intensa e controversa non sono affatto pochi. E ci piace chiudere queste pagine con un pensiero a Pulcinella, per eccellenza la maschera popolare italiana (e non solo napoletana), che nei nostri 'fanti” compare in veste di burattino nelle sapienti mani dell’attore Maurizio Stammati. In una scena del film, Pulcinella sfida la morte, che è arrivata per prenderlo e portarlo via, e la sconfigge. La morte, invece, in una scena precedente si porta con sé Mussolini. Come a dire che secoli e secoli di storie violente hanno forgiato il popolo italiano, fino a farlo diventare più forte di quello stesso potere che da sempre lo ha vessato e cinicamente usato.

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