mercoledì 26 giugno 2013
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La sua vita, da anni trascorre serena, nella Versilia che ha sempre sentito come casa sua, con la moglie Rori, settant’anni trascorsi insieme. «Con il tempo mi sono accorto che quando vivevo all’estero ci stavo male, e tutto quello che desideravo era tornare in Italia, anzi forse nemmeno in Italia, ma qui, a Fiumetto, in questa casa… In realtà non posso vivere che in Italia, che qui, in Versilia». A parlare è Manlio Cancogni, uno dei grandi scrittori italiani di oggi. Non ha mai seguito le mode imperanti, vivendo e lavorando in un fruttuoso isolamento. Nel 1999 ha riabbracciato la fede cristiana, grazie al magistero di Giovanni Paolo II e agli inizi di luglio compirà 97 anni, un bel traguardo, che la casa editrice Elliot – che da anni sta facendo ritornare in libreria i suoi libri migliori e meno conosciuti – festeggia con due libri: Così parlò Carpendras (pagine 240, euro 19,50), una raccolta di scritti, inediti in volume, che mettono in luce anche la qualità del suo intenso lavoro giornalistico negli anni cruciali tra il 1967 e il 1968; e un piccolo libro-intervista, Tutto mi è piaciuto (pagine 64, euro 9), curato da Simone Caltabellotta, in cui Cancogni racconta se stesso, le sue scelte sempre controcorrente, il suo punto di vista, mai allineato, sulla letteratura italiana del Secondo Novecento. Un autoritratto di grande intensità, da cui emerge il carattere di uno scrittore che non ha mai voluto essere classificato per etichette o per appartenenze a gruppi letterari, ma che ha sempre preferito un proprio autonomo percorso al gioco delle consorterie letterarie, sia quando tutta la narrativa italiana si adeguava agli stilemi del neorealismo, sia quando l’avanguardia metteva alla berlina alcuni dei suoi compagni di viaggio, in primis Carlo Cassola: «Oltre che un perfetto tempista al contrario, sono sempre stato di un individualismo criminale. Al di là di questo, certo era difficile per me pensare che mi potessi intruppare».Quando poi Caltabellotta gli chiede che cosa dà «in più» la letteratura, Cancogni risponde: «Certamente il senso poetico della realtà. Non c’è altra risposta. Il fondamento poetico della vita. La vita dell’assoluto, insomma». E poi aggiunge: «Ti dà la sensazione di bastare  a te stessi, al di là di quello che scrivi. Un grande senso di indipendenza, qualcosa che per me, occorre dirlo, ormai è insopprimibile». Così l’intervista diventa un «elogio della libertà», senza cedere a nessun compromesso e soprattutto all’orientamento dominante: «Quello mi è insopportabile, assolutamente; perché poi sono arroganti, cattivi, quelli che di fatto mancano di personalità libera, di una vera individualità». Lucidamente e con fermezza Cancogni racconta i limiti conformisti, a livello tematico e ideologico del neorealismo e non ha mezzi termini nel tiro al bersaglio contro l’avanguardia: «Ancora peggio però è stato quando è arrivata l’avanguardia con il suo armamentario retorico che sembrava davvero un residuato bellico del ’15-18». Con una colpa morale che Cancogni le attribuisce, quella di essere stata il «laboratorio» da cui è scaturito il ’68, che definisce «un fenomeno snobistico« più che una «rivoluzione», e la successiva degenerazione terroristica: «Il ’68 è stato l’erede dell’avanguardia  cominciata come movimento letterario nei primi anni Sessanta. Al movimento culturale dell’avanguardia si era infatti intrecciata tutta una larga frangia di, come chiamarli, poveracci, che proseguirono poi con il terrorismo. In un certo senso il terrorismo è stato un prodotto sottoproletario dell’avanguardia. Gli intellettuali avevano esaurito con il ’63 la loro carica rivoluzionaria, e questa fu ereditata dal sottoproletariato«. Sono gli stessi temi che troviamo nei «corsivi» che, durante la direzione della «Fiera Letteraria» Cancogni firmava con lo pseudonimo di Carpendras, omaggio letterario all’amico Antonio Delifini, Interventi che ci raccontano due anni cruciali della storia italiana, attraverso cronache di costume, commenti politici, opinioni su libri e film, dal Tour de France al Premio Strega, da un elogio «inconsueto« di Pasternak a dieci anni dalla pubblicazione del Dottor Zivago fino a una lettura inusuale della Lettera a una professoressa di don Milani, dal racconto della tragedia del Biafra alle considerazioni sull’invasione russa a Praga. C’è però un filo conduttore che lega queste scritture e che Cancogni mette in evidenza con ironia e chiarezza, quello del conformismo della società italiana e degli intellettuali. Già allora scriveva: «Non è necessario il potere politico per togliere libertà agli intellettuali. Si direbbe che essi trovino il maggior piacere a privarsene con le proprie mani». In una lettera pubblica all’amico Moravia, scusandosi di non essere intervenuto alla cerimonia di un premio, intuendone l’inutilità, scrive: «Immaginavo già i discorsi che si sarebbero fatti nel corso degli annunciati dibattiti, sui premi, la contestazione, la crisi della borghesia, della letteratura, delle parole. Ognuno, in cuor suo, ne sente la futilità; ma quando si è insieme, il coraggio manca (è l’unione che fa la debolezza) e si ricasca nell’abitudine di ciarlare a vuoto». A Moravia dice: «Beato te che hai voglia di occuparti di certe astrazioni attribuendo loro una vita, e quasi direi una personalità che sono ben lontane dal possedere».Oggi ancor di più Cancogni ci appare un «maestro» non retorico, fedele ad una propria vocazione , quella di «non dover difendere nessun privilegio» perché questa «è la miglior condizione possibile». E agli intellettuali di oggi ribadisce che l’arma da usare è sempre la stessa, «quella dell’indipendenza . Della libertà di giudizio, del non lasciarsi suggestionare dalle mode e dall’ideologia. Dal potere, anche. E poi frequentare altra gente, non stare soltanto tra intellettuali».
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