giovedì 12 maggio 2016
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Uno degli aspetti più interessanti del tempo 'disincontrato' in cui viviamo è il ritorno alla terra. Come società siamo passati per un processo di industrializzazione accelerata che ci ha portato lontano dalla natura e dalle sue espressioni. Oggi vediamo una generazione di giovani tornare ai campi, nel tentativo di scoprire uno stile di vita altro e un’economia diversa. Con il ritorno alla terra c’è anche un ritorno, diciamo così, a quel che la terra ci può dare di più autentico quando vinciamo le forme di sfruttamento selvaggio del creato: l’uso abusivo di prodotti chimici che diventano pericolosamente tossici. Il gran numero di mercati biologici che si tengono nel cuore delle città rivela un nuovo tipo di preoccupazione per la terra. E ci sono anche molti altri segni. In molti centri urbani, per esempio, si moltiplicano i giardini verticali, vere pareti-giardini che riempiono gli spazi vuoti di alcuni edifici. Che cosa c’è di particolare in questo ritorno alla natura? Penso si tratti della presa di coscienza che vivere distanziati da essa comporta il vivere distanziati da sé stessi. La poetessa Sophia de Mello Breyner Andresen nel suo componimento Il Re di Itaca offre questa spiegazione: «La civiltà in cui viviamo è così errata che in essa il pensiero si è scollegato dalla mano. Ulisse, re di Itaca, si fabbricò la sua barca e si vantava di saper anche aprire in un campo, diritto, il solco dell’aratro». Viviamo divisi, senza interezza e senza sapere cosa sia. Viviamo di mezze verità, di mezze parole, esiliati da noi stessi, divorati da ritmi disumani, da necessità prefabbricate che non sono davvero le nostre. Viviamo fuori di noi, incapaci di costituirci come soggetti della nostra propria storia. Il mondo che ci attornia, però, può portarci alla sapienza. Di tutte le poetiche del mondo, le orientali sono sicuramente quelle che hanno maggiormente lavorato sul motivo del giardino. Un autore del IV secolo, il cinese Tao Qian, ci ha lasciato la seguente testimonianza: «Da giovane non mi adattavo alla volgarità: amavo le colline e le montagne. Poi, per errore, mi lasciai prendere dalle maglie del mondo e così dissipai molti anni della mia vita. Ma l’uccello prigioniero ha nostalgia dell’antica foresta, e il pesce del ruscello ricorda quando nuotava libero nella corrente. Avvistai a sud questi campi incolti. Per preservare la mia semplicità feci ritorno ai campi. A lungo rinchiuso in gabbia, potei infine tornare alla natura». «Tornare alla natura» si dice, nel cinese del IV secolo, fanziram. E fanziram può essere tradotto anche come 'tornare a me stesso'. È curioso notare come, nella tradizione cinese colta, i letterati avessero tra le loro attività quella di piantare e curare un giardino. L’intellettuale era quello che si distingueva per la cura del suo giardino, non quello che produceva solo idee o parole. Un grande letterato giapponese dell’VIII secolo scrisse: «Da quando abito qui, alzo la testa e vedo la montagna. La abbasso, e odo le sorgenti. Mi giro e scorgo i bambù, gli alberi, le nuvole e le rocce. Al mattino e verso sera hanno tutti una sola voce. Istantaneamente il mondo mi abbraccia e il mio respiro si abbandona a suo agio, interiormente ed esternamente. Dopo una notte il mio corpo si è calmato; due notti, e il mio cuore ha trovato la pace. Tre notti, e mi sento così bene che perdo la coscienza di tutto senza sapere come ciò avvenga. Il mondo che mi attornia mi porta alla sapienza». Credo che la nostra vita rimanga incompleta se dopo avere creato orti, case e templi, non ci saremo creati un giardino. © RIPRODUZIONE RISERVATA Chiamate in attesa
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