martedì 20 dicembre 2022
Le Gallerie d’Italia raccontano la storia del mecenatismo dei banchieri, dai Medici al Novecento. Accanto agli splendori non si può dimenticarne la complessità politica
Alle Gallerie d’Italia opere di Caravaggio e van Honthorst, un tempo della collezione Giustiniani

Alle Gallerie d’Italia opere di Caravaggio e van Honthorst, un tempo della collezione Giustiniani - -

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Si possono dare molte definizioni di ciò che l’arte è, ma è sempre opportuno non idealizzare per non peccare di ingenuità. Quello che chiamiamo “mecenatismo” implica uno strettissimo legame tra arte e potere, tra arte e ricchezza. Un legame dove l’arte è non di rado subordinata e dal quale ha provato a rendersi indipendente, senza riuscirci: entrambi sono legati a doppio filo. È una riflessione che è difficile sopprimere visitando la mostra “Dai Medici ai Rotschild. Mecenati, collezionisti, filantropi”, a cura di Fernando Mazzocca e Sebastian Schütze, fino al 26 marzo a Milano nelle Gallerie d’Italia, nella sontuosa sede di quella che fu la Banca Commerciale Italiana. Le Gallerie d’Italia, i musei di Intesa Sanpaolo distribuiti su quattro città, sono forse il progetto più importante in Italia di cultura pubblica interamente sostenuta da capitale privato. Le mostre proposte sono sempre di altissimo livello scientifico e di resa spettacolare. Anche questa ne conferma la tradizione: grazie a prestiti eccezionali, si racconta per la prima volta in modo complessivo il ruolo di committenza del potere finanziario accanto all’ecclesiastico e al politico (dei quali è stato spesso volentieri scheletro e ombra) fino alla sua emancipazione. Attorno al nucleo dei Medici la mostra dispone casi esemplari tra Europa e America, dai Giustiniani (banchieri di origine genovese senza i quali forse non avremmo Caravaggio) a Jabach, tedesco nella Francia di Luigi XIV, i viennesi Fries sostenitori di Beethoven, i Torlonia (che acquisiscono le collezioni della vecchia nobiltà romana in difficoltà proprio nel turning point epocale dell’occupazione francese, e con esse un nuovo status sociale) su fino ai Rotschild e J.P. Morgan per approdare a Raffaele Mattioli, noto come il “banchiere umanista”. Giovanni Bazoli, presidente emerito di Intesa Sanpaolo, in occasione dell’inaugurazione ha affermato che «occuparsi della cultura, della crescita della società civile nei territori in cui la banca opera, è condizione perché ci sia la possibilità di una crescita della banca stessa. Non è solo generosità, è strategia da parte di una banca di occuparsi della crescita civile dei territori in cui opera». È forse soltanto tenendo a mente la complessità strategica di questa azione che si può approcciare il fenomeno, storico e attuale, del sostegno alle arti. Ecco perché il racconto del percorso espositivo (ma non il catalogo, Edizioni Gallerie d’Italia / Skira) appare forse un po’ irenico. Non si può dimenticare che la grandiosità della politica estetica dei Medici, e di Lorenzo il Magnifico in primis, è direttamente proporzionale all’erosione fino alla scomparsa della repubblica fiorentina. Di diretta derivazione dal greenwashing, nel 2010 è stato coniato il termine artwashing: ma la pratica di accattivarsi l’opinione pubblica attraverso le arti è ben più antica. Un lavaggio non solo dell’immagine ma anche della coscienza: non avremmo il capolavoro di Giotto se Enrico degli Scrovegni non avesse temuto per la propria anima a causa delle ricchezze accumulate con attività creditizia, ossia a usura. Come scrive in catalogo Schütze, storico dell’arte dell’Università di Vienna, «memoria liturgica e salvezza delle anime costituiscono il fine di ogni cappella gentilizia... la fondazione di una chiesa o di un altare offriva anche l’occasione per ostentare ricchezza e status sociale, e questa simbiosi perfetta tra motivazioni temporali e religiose era uno dei motori più importanti per la produzione artistica della prima età moderna». Per ogni banchiere vengono esposte opere un tempo in collezione (delineando così anche una storia del gusto) finite poi per donazione in musei pubblici. Tali donazioni sono un segnale del passaggio alla modernità secolarizzata e sostituiscono la committenza artistica in ambito sacro, che si è sempre accompagnata alle opere di carità. Venuta meno la spinta religiosa la prima si trasforma mentre le ultime resistono in sintonia con la transizione del mecenatismo bancario verso un coté civile (e talvolta nazionalista). Senso di responsabilità verso la comunità, amore sincero per l’arte e la cultura, operazione politica di posizionamento: tutto concorre. «Le motivazioni dei grandi banchieri – conclude Schütze – per committenze artistiche, collezionismo e filantropia erano estremamente complesse e variabili, e le loro passioni per l’arte risultano indissolubilmente intrecciate con ambizioni sociali, economiche e politiche. Queste differenti motivazioni funzionarono come vasi comunicanti e interdipendenti che portarono alle decisioni e ai risultati finali ». In sostanza committenza artistica, collezionismo e filantropia non sono altro che «la sapiente trasformazione di capitale economico in capitale sociale, culturale e simbolico».

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