mercoledì 9 settembre 2020
Il suo compito è soprattutto quello di suscitare un vivo e libero desiderio, in chiunque, di porgere orecchio a quello che Gesù dice per la nostra vita. Il nuovo libro di Armando Matteo
Casagrande, “Mosè con le Tavole della Legge”. Eger (Ungheria), cattedrale

Casagrande, “Mosè con le Tavole della Legge”. Eger (Ungheria), cattedrale - Alinari

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Guardare all’opera dei grandi teologi e ancora di più al Gesù vivo e vero dei Vangeli. E’ il percorso che don Armando Matteo, docente di Teologia fondamentale all’Urbaniana intraprende in questo libro per mostrare come questa disciplina, che in fondo è un ponte fra Dio e la nostra felicità, sia ancora viva e capace di affascinare le nuove generazioni. Evviva la teologia. La scienza divina (San Paolo, pagine 191, euro 16) è da oggi in libreria, ispirato alle parole di Francesco: «Solo una teologia bella che abbia il respiro del Vangelo e non si accontenti di essere soltanto funzionale, attira». Anticipiamo una sintesi dell’introduzione firmata dallo stesso autore.

È possibile, nel contesto di questa nostra società sempre più secolarizzata, tessere un elogio della teologia? Una lode di quella “scienza divina” che ha per oggetto non questo o quell’aspetto del reale, ma il mistero primo e ultimo di tutto ciò che esiste, che è esistito e che esisterà e che la lingua umana da sempre nomina “Dio”? Non è ormai il nostro, almeno alle sue latitudini occidentali, un mondo senza Dio? E non è, appunto, ogni Dio definitivamente morto e sepolto, come più o meno centocinquant’anni fa proclamò Nietzsche? Certo, è ancora ammesso, e non senza un ampio consenso, un qualche discorso che prenda a tema questioni come l’anima, Dio, Gesù e persino la Vergine Maria (come accade in molti testi di Vito Mancuso, Massimo Cacciari, Corrado Augias, Massimo Recalcati), purché però tali argomenti vengano affrontati sulla scorta di parametri totalmente razionali, storici, simbolici e psicoanalitici. Come a dire che l’unico mistero ancora possibile da indagare, dopo la morte di Dio, è che, in verità, non c’è appunto alcun mistero. Sotto queste condizioni, dunque, che cosa potrebbe essere sopravvissuto, nella coscienza diffusa, di quell’esercizio dell’intelligenza umana che corrisponde al nome di teologia? In verità, non ne è rimasto molto. Per la maggior parte delle persone, se ha ancora un senso e ancora serve a qualcosa, la teologia ha un unico scopo: la formazione della classe dirigente della Chiesa. Insomma, per gli uomini e le donne di oggi, e indipendentemente dalla loro formazione culturale, la teologia è quella cosa che “si fa” – si insegna – in quei luoghi chiamati “seminari”, nei quali un sempre più piccolo gruppo di giovani maschi si ritrova per diventare responsabili di una delle numerosissime parrocchie presenti sul territorio. In quei luoghi, insomma, dove ci si fa prete!

Forse qualcuno potrà ancora ricordare che anche coloro che insegnano religione nelle scuole hanno l’obbligo di un percorso di studi afferente al sapere teologico; e infine solo pochi saranno a conoscenza del fatto che pure per la preparazione di coloro che si avviano ad una vita religiosa – suore, frati, monaci e monache – è prevista una qualche istruzione di tipo teologico. In ogni caso, l’idea diffusa circa la teologia è quella di una forma di sapere strumentale: serve a coloro che, a diverso titolo, si mettono al servizio di una vocazione religiosa. La teologia è insomma una cosa per preti, suore e insegnanti di religione. Di conseguenza, di un suo elogio pubblico e principalmente destinato a coloro che non sono né intendono diventare preti, suore o insegnanti di religione, nessuno pare proprio al momento avvertirne la ragione e, ancora di meno, il bisogno. [...] Esiste, in verità, pur sotto queste pesanti premesse, una minima possibilità che il tentativo di far riverberare anche oggi il sublime fascino della teologia possa non essere destinato irrimediabilmente al fallimento. A condurmi oltre il sentiero della possibilità di tessere le pubbliche lodi del sapere teologico, ci sono alcuni attuali “casi letterari”. A cosa mi riferisco? Al fatto che, proprio in questi anni recenti, c’è stato qualcuno – più d’uno – che è riuscito in un’impresa simile a quella che qui ci proponiamo. Parlo di quella straordinaria impresa di gettare una luce nuova, calda, avvolgente su ciò che nel lessico comune viene normalmente rubricato come “lingua morta”. Trattasi di quelle lingue morte rappresentate dal latino classico e dal greco classico. Come non restare felicemente sorpresi non solo dalla bravura di studiosi come Nicola Gardini e Andrea Marcolongo, ma ancora di più dalla strepitosa e più che mai giustificata ottima accoglienza che alle loro rispettive opere – Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile e La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco – è stata riservata? A esse, a titolo diverso, aggiungerei almeno il saggio di Anna Linda Callow, La lingua che visse due volte. Fascino e avventura dell’ebraico. Proprio le numerose ristampe di queste opere, le molteplici traduzioni, i grandi dibattiti ed entusiasmi che hanno acceso e continuano ad accendere, testimoniano che forse qualcosa come un “Evviva la teologia” abbia, dalla sua, una qualche chance. [...] sembra opportuno precisare che il dato per il quale la teologia cristiana trova ispirazione in Gesù di Nazareth è da intendere precisamente come il riferimento al proprio luogo generativo.

È proprio da Gesù, infatti, che la teologia parte e riparte, ogni volta. Si aggrappa alle sue parole, ai suoi gesti, alla sua vicenda, per afferrare sempre meglio e sempre più ampiamente la novità che quelle parole, quei gesti, quella vicenda hanno immesso nello spazio del sapere umano circa il mistero di Dio, la sorte dell’uomo e la consistenza del mondo, a quel mistero profondamente intrecciate. Proprio in quelle parole, in quei gesti, in quella sua vicenda, conservati nelle Scritture sacre dei cristiani e dunque in ciò che correntemente si chiama Nuovo Testamento (composto dai quattro vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni e da altri testi come per esempio le lettere di Paolo e di Pietro), la teologia è convinta di trovare la luce in grado di illuminare quell’appassionata ricerca della verità che da sempre tormenta il genere umano: è lì che essa confida di trovare una consistente traccia per decifrare quel senso di mistero e quel mistero del senso che abita la vicenda umana su questo pianeta. Lì è presente una novità – rispetto ad ogni sapere umano faticosamente conseguito circa le questioni radicali di un’esistenza: chi siamo, da dove veniamo, verso dove stiamo andando, qual è l’orizzonte del quotidiano travaglio di tutti – che il sapere teologico, prima di offrire al pubblico apprezzamento, si sforza ogni volta umilmente di assimilare sino in fondo. Della novità legata all’avvento nella storia di Gesù, la teologia è pertanto luogo di rispettosa ricezione, di appassionato approfondimento e soprattutto di interessata comunicazione agli uomini e alle donne di volta in volta presenti nella storia. Il compito della teologia non si esaurisce, infatti, solo nel cogliere quel che Gesù ha rivelato circa il mistero di Dio e di offrirne una presentazione coerente e intelligibile a chiunque. Il compito della teologia è soprattutto quello di suscitare un vivo e libero desiderio, in chiunque, di porgere un orecchio diretto a quel che Gesù ha rivelato: un vivo desiderio di entrare dentro quella storia, perché chiunque può intendere che quella storia ha a che fare con la propria storia. Per questo la teologia non si dà mai una volta per tutte.

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