lunedì 17 ottobre 2011
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Non c’è niente come la dolcezza, la benevolenza e la tenerezza. Confesso di temere un uso individualistico degli esercizi spirituali. Potrebbero favorire una chiusura blindata per soffrire meno, per costruirsi una piccola felicità privata. Eppure, più leggo Epitteto, Epicuro o Marco Aurelio più vi colgo un appello ad aprirsi al mondo, alla vita (e agli altri, aggiungerei). In quei testi non ci sono accozzaglie di ricette. Soltanto una maniera d’essere, di vivere, di pensare. Sono così maldestro che divento quasi una caricatura. Ma siccome gli esercizi spirituali si praticano nnanzitutto in prima persona, chi sono io per dare consigli? Un esercizio di vita si deve provare; eventualmente si può condividere. Contaminato dal consumismo circostante, temo di trovare nella padronanza di sé un mezzo che consolidi il mio estremo individualismo, che mi indurisca di fronte alla sofferenza altrui. Oggi dei capi d’azienda si richiamano perfino a filosofi per applicare le loro regole di condotta al mondo del lavoro. Benissimo! Ma com’è possibile non aver paura che la disciplina venga utilizzata in questo modo e sacrificata al solo scopo del profitto? Ci sono mille modi di praticare gli esercizi spirituali. Chi sogna una vita tranquilla, con solo un po’ di compassione, come chi desidera degli impiegati stoici, dei soldati della virtù, può trovare in queste pratiche tutto ciò che desidera. Lasciamo perdere le caricature e cerchiamo di tornare all’essenziale: l’esercizio spirituale come liberazione di sé, come apertura all’altro! Contro un’eventuale interpretazione individualista basta leggere qualche pagina degli stoici. Praticavano la fisica, ovvero la conoscenza della natura secondo forme di esercizio. Per sentirsi parte del tutto questa conoscenza doveva dilatare l’io, espanderlo. In fondo i miei accessi passionali mi portano fuori strada e mi fanno perdere ogni riferimento, mi allontanano dalle comodità in cui mi ero riparato. Aprirsi, aprirsi, ecco l’ascesi! Mi piace questa idea: noi apparteniamo a un universo, a un cosmo. Spesso me ne separo, mi ripiego su me stesso e lo riduco. Nudo, senza protezioni, vorrei esplorare questo vasto mondo! Una volta di più mi accorgo di quanto sia vano pretendere di sedersi sul trono di Dio e ricondurre a sé ogni cosa che accade.Nel suo La tranquillità dell’animo Seneca dispensa molti ottimi consigli: «Abituiamoci a rimuovere da noi lo sfarzo e a misurare l’utilità, non gli ornamenti delle cose. Il cibo domi la fame, le bevande la sete, il piacere sia libero di espandersi entro i limiti necessari; impariamo a sostenerci sulle nostre membra, ad atteggiare il modo di vivere e le abitudini alimentari non alle nuove mode, ma come suggeriscono le tradizioni; impariamo ad aumentare la continenza, a contenere il lusso, a moderare la sete di gloria, a mitigare l’irascibilità, a guardare la povertà con obiettività, a coltivare la frugalità anche se molti se ne vergogneranno, ad apprestare per i desideri naturali rimedi preparati con poco, a tenere come in catene le speranze smodate e l’animo che si protende verso il futuro, a fare in modo di chiedere la ricchezza a noi piuttosto che alla sorte».Un’espressione riassume bene l’elenco di Seneca: la prosoché heauton, la vigilanza di sé. La cosa fastidiosa è che essa giunge sempre dopo il fatto! E soltanto dopo essere uscito dal negozio che mi chiedo se l’acquisto sia davvero utile. Passata la rabbia, capisco che nulla vale quanto la dolcezza. In un secondo tempo, sono sempre super-vigilante!Merleau-Ponty ha detto che la filosofia consiste in uno sforzo per re-imparare a vedere il mondo. Re-imparare a vedere il mondo, rivisitare, più liberi, un reale spesso celato dietro abitudini, pregiudizi, paura e aspettative: ecco il compito! Guadagno del giorno: degli esercizi molto concreti. È il reale che guida i miei passi, solo così posso perseverare e progredire. L’ascesi procede insieme alla gioia, conduce allo spogliamento di sé e non alle mortificazioni o alle privazioni tristi.
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