martedì 9 marzo 2010
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Se oltre a rimuovere i crocefissi, potessero far scomparire la Bibbia, molti «liberi pensatori» di casa nostra lo farebbero con gioia: senza accorgersi di rimuovere così una parte innegabile della propria identità culturale. E agli europei, sempre pronti a bacchettare l’Italia, per ultimo anche sul crocefisso, i nostri politici colti (ci sono?) avrebbero dovuto replicare: d’accordo, ma prima levate voi la croce dalla vostra bandiera (Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Islanda, Grecia e soprattutto Gran Bretagna, che riunendo i vessilli delle sue quattro parti disegnò la pittoresca somma di croci dell’Union Jack).I Savoia, di tradizione ghibellina, non rimossero certo dal loro stemma la croce: bianca in campo rosso, per distinguersi da quella guelfa, a colori invertiti (la croce rossa in campo bianco campeggia nell’insegna di Milano e dell’Alfa Romeo). Quanto all’azzurro della bandiera sabauda, è passato alla patria sportiva: vi immaginate i fervidi repubblicani strappare la maglia a Totti, Del Piero e compagni? Il laico Croce spiegò «perché non possiamo non dirci cristiani»: e un cattolico intellettualmente avvertito potrebbe fargli eco affermando che non possiamo non dirci kantiani.Non so se i rischi maggiori di perdita identitaria (non parlo di chiusura etnica) e falsificazione storico-culturale vengano dalla troppo rapida e massiccia immigrazione di extra-comunitari o da un laicismo indigeno, viscerale e attardato. L’avversione all’insegnamento della religione nella scuola ne offre un chiaro esempio. A quanti poi obiettano che la nostra scuola dovrebbe dare egual spazio al cattolicesimo, allo scintoismo e allo sciamanesimo, potremo ribattere; daremo lo stesso spazio a Dante, a Kawabata e ad Alce nero? Non penso a una difesa della fede (quella non s’insegna a scuola) ma proprio alla dottrina della Chiesa, necessaria per capire il nostro passato e dunque il nostro presente-futuro. La conoscenza della dottrina è necessaria, soprattutto, a chi, venuto da lontani lidi geografici e mentali, poco o nulla ne sa. Se io vivessi in Iran o in India, vorrei pur sapere qualcosa dell’islamismo sciita o dell’induismo, pur conservando la mia appartenenza confessionale (se aggressioni e pogrom sempre più fitti lo permettessero). Capiterà dunque anche a noi di sentirci rivolgere la domanda di una ragazza americana che visitava un santuario mariano? «Mamma, perché sui muri sono dipinte tante baby-sitter col loro pupo?». Le due radici della nostra civiltà, quella classico-razionalista e quella giudaico-cristiana, sono fortemente intrecciate. È la conclusione cui è arrivato un bel convegno appena tenutosi all’Università di Roma Tre sul riuso delle favole antiche nella nostra letteratura: Amazzoni, Giganti, Androgini e ninfe popolano i versi di Ariosto o di Monti, i dipinti di Batoni e la musiche di Monteverdi. Ma ogni relatore finiva necessariamente per coinvolgere la sfera cristiana: Giuda Abarbanel alias Leone Ebreo concilia Cabala, Platone, e catechismo della Chiesa; l’allegoria sdogana anche i miti a luci rosse (nel leggiadro Ganimede rapito da Giobbe si cela l’anima che aspira a elevarsi), l’Androgino rinvia alla natura divina, paterna e materna insieme, come sosteneva Origene e ebbe a ripetere papa Luciani. La stessa esigenza è stata avvertita dal nutrito pool do studiosi che, dopo aver completato una grossa opera in sei volumi sul Mito nella letteratura italiana, ne ha avviato presso la stessa editrice Morcelliana una complementare sulla Bibbia nella letteratura italiana. Particolare curioso: mentre la prima opera era stata più volte finanziata dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Miur), il progetto biblico non ha avuto il becco di un quattrino. i fondi hanno preso la via della (misteriosa e forse inesistente) letteratura post-coloniale o della (stucchevole e strastudiata) favola pastorale. Curioso anche il rilievo che ha impedito al nostro giudizio e punteggio (invero buoni) di raggiungere l’eccellenza (e il finanziamento): progetto sarebbe troppo ambizioso per essere realizzato. Dunque i sei volumi che la stessa équipe ha pubblicato sul mito (per 3600 pagine) e i due già usciti sulla Bibbia (mille pagine) sono un miraggio? Un delirio di inguaribili sognatori? L’opera è stata resa possibile perché ai cinque gruppi-guida (atenei di Venezia, Trieste, Verona, Pisa, Lecce) si aggiunge uno stuolo di qualificati studiosi di varie università italiane e straniere, di cui i valutatori nominati dal Miur (il cui ufficio stampa, da noi interpellato, non ha saputo darci chiarimenti al riguardo: n.d.r.) non sembrano essersi accorti. Potremmo pensare a una semplice distrazione, se un altro indizio non ci inducesse in sospetto; un altro progetto di tema analogo, presentato da un pool coordinato dall’Università Tor Vergata di Roma, è stato lasciato a secco. Non si tratta dunque, mi pare, di un caso strettamente personale. Evidentemente Marte e Venere allettano più di Mosè e della Maddalena, almeno presso i Soloni del Ministero.
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