giovedì 8 ottobre 2020
L’indagine condotta dal dipartimento di Scienze della comunicazione dell’Università di Urbino per l’ottavo Festival del Giornalismo culturale fotografa un quadro in parte imprevisto
Una delle conferenze stampa “distanziate” della Protezione Civile

Una delle conferenze stampa “distanziate” della Protezione Civile - Ansa/Riccardo Antimiani

COMMENTA E CONDIVIDI

Aspetta, questa è facile: perché si chiamano media? Perché mediano tra qualcuno e qualcun altro. Tra le istituzioni e i cittadini, per esempio, ma anche tra gli esperti e chi si rivolge ai media nel tentativo di capirne di più. È andata così fino ad adesso, o almeno fino all’altro giorno. Ma proviamo a immaginare quello che potrebbe capitare se, in situazioni estreme, i media mediassero un po’ di meno e a informare provvedessero direttamente le istituzioni oppure gli esperti. È esattamente quello che è accaduto nei mesi del lockdown e che, sia pure in maniera mitigata, continua ad accadere in questi giorni, tra un prolungamento dello stato d’emergenza e l’ennesimo bollettino sull’andamento dei contagi. Uno scenario in parte imprevisto, che ora viene fotografato con esattezza dall’indagine condotta dal dipartimento di Scienze della comunicazione dell’Università di Urbino per il Festival del Giornalismo culturale, la cui ottava edizione si apre domani. Guidato da Lella Mazzoli, nel giugno scorso il gruppo di ricerca ha interpellato un migliaio di persone – 1.003, per l’esattezza – con l’obiettivo di fare il punto non solo su come si informano gli italiani, ma anche e specialmente su come è stata percepita la qualità delle notizie di argomento scientifico durante la tempesta del coronavirus. Il quadro che ne emerge alterna conferme (come il primato delle televisioni nazionali, stabili all’86%) a elementi significativi di discontinuità.

Uno riguarda la brusca riduzione degli ascolti radiofonici (al 52% nel 2019, oggi scesi al 45%), in buona parte riconducibile al forzato cambio di abitudini da cui deriva anche l’ulteriore riduzione del ruolo dei quotidiani sia nazionali sia locali, che si assestano sul 28% e sul 27% rispetto al 34% dello scorso anno. Per contro, sono in ascesa le reti all news (dal 60% al 66%) e le tv locali (dal 52% al 60%), che svolgono una funzione di prossimità particolarmente ap- prezzata nei momenti di incertezza. Se ci si sposta sul web, invece, l’unico fattore che contraddice il complessivo rafforzamento delle diverse fonti (a guidare la classifica sono i siti dei quotidiani, consultati dal 64% degli interpellati) è il ricorso al passaparola su Facebook, che fa registrare una flessione del 3% (dal 39% al 36%). A un esame più approfondito, è evidente che il cambio di abitudini non è distribuito in maniera omogenea: a fare affidamento sull’online sono prevalentemente i giovani tra i 18 e i 29 anni (39,5%) e le persone con scolarità più alta (32%), mentre restano fedeli ai media tradizionali gli ultrasessantacinquenni (37%) e quanti hanno un titolo di studio meno elevato (licenza elementare per il 47%, media per il 34%). In ogni caso, per più della metà degli interpellati (55%) l’informazione ha seguito in modo abbastanza adeguato l’andamento del coronavirus e l’11% esprime una valutazione del tutto positiva.

La sorpresa maggiore arriva però quando si individuano gli attori di questo flusso informativo. A suscitare maggior fiducia sono infatti la Protezione Civile (22%), le organizzazioni sanitarie pubbliche (21%) e, a pari merito con le testate giornalistiche nazionali, la Presidenza del Consiglio (17%). Oltre che alle strategie comunicative adottate dalle istituzioni, con le famose dirette televisive oppure sui social, pesa la peculiare natura delle informazioni in questione. Si privilegiano i messaggi più chiari, come quelli relativi alle modalità di prevenzione (81%), e si rimane scettici davanti ai ripetuti annunci sui vaccini (se ne dichiara soddisfatto solo il 53%). Coronavirus a parte, il 69% degli intervistati afferma di ritenere molto o abbastanza affidabile l’informazione scientifica nel nostro Paese. Mutuando una parte dell’indagine svolta negli Stati Uniti dal Pew Research Center, la ricerca dell’Università di Urbino dedica attenzione anche al tema della fede. A differenza di quanto accaduto negli Usa, dove il 24% del campione sostiene di aver rafforzato le proprie convinzioni religiose durante l’emergenza, solo il 14% degli italiani ammette un’attitudine simile. Per il 70% dei nostri connazionali, infatti, la pandemia non ha indotto alcun mutamento spirituale. Solo il 2%, in compenso, dichiara di avere meno fede di prima.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: