mercoledì 14 aprile 2021
A Milano compie un secolo l’istituzione a cui si devono centinaia di chiese e migliaia di oggetti per la liturgia. Il direttore Bordoni: «Oggi continua a essere un laboratorio per Chiesa e artisti»
Scuola Beato Angelico, da 100 anni a servizio del sacro

Fondazione Beato Angelico

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Compie cento anni la Scuola Beato Angelico, fondata a Milano da monsignor Giuseppe Polvara nel 1921. Una realtà unica nel suo genere in Italia, per storia, prolificità (ha costruito centinaia di chiese, eseguito innumerevoli adeguamenti liturgici, realizzato migliaia di altari, affreschi, mosaici, oggetti per il culto, tra cui la celebre tiara di Paolo VI) e come luogo di formazione. A un secolo di distanza, anche con la rivista “Arte cristiana”, continua a essere un cantiere aperto, come spiega don Umberto Bordoni, direttore della Fondazione Beato Angelico: «un luogo di ospitalità e di incontro tra gli artisti e la Chiesa».

In quale contesto nasce la Scuola Beato Angelico?

«La sua “preistoria” è legata alla figura di Celso Costantini, futuro cardinale, fondatore della rivista “Arte Cristiana” e, nel 1912, della Società degli Amici dell’Arte Cristiana. Si tratta di un cenacolo di artisti e di cultori dell’arte cui sta a cuore la promozione e il rinnovamento di un’autentica arte cristiana, in sintonia con quanto accade in Europa, col fiorire dei centri del Movimento liturgico, penso alle abbazie di Maria Laach e di Beuron in Germania, agli Ateliers d’Art Sacré di Parigi. La Scuola Beato Angelico nasce in un contesto sociale tormentato e in un tempo segnato, per la Chiesa, dall’affacciarsi con forza delle istanze della modernità. L’impasse politica e magisteriale è compensata da una capillare presenza e operatività pastorale sul territorio: sono gli anni in cui la dottrina sociale della chiesa genera molteplici istituzioni assistenziali, cooperativistiche e culturali. Non senza il nostalgico sogno di una restaurazione della cristianità medievale.».

Il 1921 è anche l’anno di fondazione dell’Università Cattolica.

«Non a caso è sempre a Milano che Polvara, sacerdote, pittore e architetto, costituisce la Scuola per l’arte sacra Beato Angelico. Nell’ideale del prete un unico ateneo avrebbe dovuto accogliere e unire le arti con le scienze, la filosofia e la teologia. Gli inizi sono coraggiosi, pragmatici, ma anche con una chiarezza di intenti: la Scuola ambisce a ricostituire quelle botteghe medievali nelle quali la formazione degli artisti avveniva attraverso una fraternità di opera e di vita coi maestri. In un certo senso è una Bauhaus cristiana. Anche perché mons. Polvara cerca di riconciliare la tradizione dell’arte cristiana e alcune espressioni della modernità, dal divisionismo nella pittura all’impiego del cemento armato nelle strutture. Le sue chiese devono avere un apparato iconografico rilevante come quelle antiche in una architettura sobria e riconoscibile che sperimenta soluzioni ingegneristiche innovative. Si tratta di un compromesso, di una equilibrata apertura alle esigenze del proprio tempo. Lo studio della nostra storia è un primo obiettivo del centenario. Alcuni giovani studiosi stanno aprendo piste di ricerca. Un convegno di studi, nel 2022, traccerà un quadro di indagine più preciso sulle origini della scuola d’arte in relazione a esperienze analoghe».

Quella della Beato Angelico è una esperienza italiana?

«Possiamo dire che è stata internazionale. Il regesto delle chiese realizzate dalla Scuola vede progetti disseminati in tutta Italia ma anche Svizzera, Malta, Romania, Giordania, Argentina... per non parlare delle decine di migliaia di paramenti e suppellettili».

Che ruolo ha avuto la Beato Angelico, con il suo accento sull’aspetto liturgico, nel percorso che ha condotto al Vaticano II?

«La Scuola è indubbiamente uno dei protagonisti del movimento liturgico in Italia: la partecipazione dell’allora giovanissimo don Valerio Vigorelli al Concilio come perito per l’elaborazione di Sacrosanctum Conciliumne è indizio. La rivista “Arte Cristiana” è stata poi lo strumento di dibattito, riflessione e maturazione delle prospettive conciliari».

Qual era la funzione della rivista?

«“Arte Cristiana” nasce con lo scopo di educare la sensibilità del clero e del popolo di Dio sul valore dell’arte per il culto, e per alcuni decenni mantiene questo profilo, poi si specializza nelle arti per la liturgia fino a divenire una pubblicazione scientifica riconosciuta a livello accademico e diffusa internazionalmente. L’indirizzo iniziale era più di tipo pastorale, in analogia all’“Art Sacré” francese: in qualche modo questo compito educativo è una sfida ancora aperta per la Chiesa. Oggi si occupa anche di cultura visuale, di fotografia, di restauro ed è diffusa nelle principali istituzioni culturali nel mondo».

Nel corso del tempo è cambiata anche la formazione.

«Nel corso dei suo cent’anni di storia la Beato Angelico, attraverso l’istituto d’arte e il liceo artistico, ha formato generazioni di professionisti. La scuola secondaria, oggi non più attiva, univa una solida formazione culturale a una straordinaria possibilità di sperimentazione nei laboratori artistici. Non è un caso che da queste aule siano uscite figure come Ermanno Olmi, Mario Botta, Adrian Paci. Oggi ci occupiamo di alta formazione. Abbiamo una biblioteca di 40mila volumi specializzata su arte e liturgia e un archivio di 100 anni di storia: progetti, disegni, materiali, architettura, design per le suppellettili. Collaboriamo con la Cei per la formazione nell’ambito dell’adeguamento liturgico. Abbiamo attivato corsi per guide turistiche sul turismo religioso. E c’è il desiderio di aprire corsi di arti applicate. Infine abbiamo acceso una attenzione verso i beni culturali ecclesiastici. C’è un patrimonio da restaurare e conservare, da rendere fruibile in termini pastorali e culturali: un compito smisurato. E per questo abbiamo attivato un laboratorio di restauro che lavori in questo senso e non solo sulla natura materiale del manufatto. Ad esempio abbiamo restaurato la Santa Lucia di Siracusa, un intervento delicatissimo sul simulacro più venerato dai siracusani. Un restauro simile richiede competenze multiple: scientifiche, tecniche, pastorali. La vera sfida è quella di mettere assieme le varie dimensioni, nella convinzione che il patrimonio culturale non è solo un onere di cui prendersi carico, ma una straordinario scrigno di memoria e di fede da cui possono scaturire nuove forme di annuncio del Vangelo. Il committente ultimo delle opere ecclesiali è il popolo di Dio. Cancellare la storia non è cristiano, vuol dire credere che non è salvifica. Custodirla, anche nelle pietre e nelle opere, ha a che fare con la grazia.».

Qual è il futuro della Scuola?

«Intendiamo essere aperti alla pluralità dei linguaggi: la narrazione oggi passa per le vie della fotografia, del video, dell’arte performativa. Come questo possa entrare negli edifici di culto è una sfida. Nell’anno del centenario avvieremo un dialogo con alcuni artisti in vista di sperimentazioni concrete. Sul fronte dell’arte contemporanea e del sacro assistiamo a una apertura teorica a cui non corrisponde una pratica altrettanto coraggiosa. C’è uno spazio per l’intervento dell’arte contemporanea in un campo meno vincolato rispetto all’arte liturgica che dobbiamo frequentare con coraggio e libertà».

Cosa può insegnare l’eredità della Beato Angelico nel campo delle nuove chiese?

«Paghiamo lo scotto di chiese fatte di sola architettura, in cui i fedeli fanno fatica a trovarsi a casa. Luoghi strutturati che non prevedono spazi per l’intervento artistico. Polvara riteneva che questo ci dovesse essere fin da subito. Penso a una presenza dell’arte non in forma didattica ma evocativa. Immagini e spazi che aiutino a far percepire la presenza del mistero di Dio e a riconoscerla in quella icona fondamentale che è la persona umana. Una densità atmosferica dello spazio capace di immergere in una trascendenza ospitale e amica. Così che il rito possa tornare a essere un’esperienza trasformativa: il luogo di un nuovo inizio cristiano».

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