sabato 22 novembre 2014
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Non l’ennesimo manuale di “scrittura creativa”, ma un’opera ampia e articolata che affronta a tutto tondo i diversi stili di scrittura:  dall’informazione all’esposizione, dall’argomentazione alla narrazione. Con tanto di precise indicazioni sul buon uso della grammatica e sulle principali figure retoriche. Non a caso è di 560 pagine il volume L’officina della parola (Sironi Editore), di cui sono autori Stefano Brugnolo, docente di Teoria della letteratura all’Università di Pisa, e Giulio Mozzi, uno dei più originali e apprezzati scrittori italiani degli ultimi decenni. Proprio con Mozzi vogliamo parlare di scrittura, di come si possa insegnare e di come si possa apprendere quest’arte a proposito della quale si sente spesso ripetere che è questione di doti naturali: un’affermazione che – come vedremo – rischia di essere un luogo comune. Ma con Mozzi parliamo anche della formazione dei narratori di oggi e delle per alcuni benemerite, per altri famigerate “scuole di scrittura”. Mozzi, a chi è indirizzato il libro che ha scritto con Stefano Brugnolo? «Avevamo in mente tre categorie di lettori: prima, le medesime persone che incontriamo nei luoghi dove andiamo a insegnare la scrittura, la narrazione, l’argomentazione; seconda, qualunque tipo di professionista che, per il suo lavoro, abbia bisogno di scrivere molto e possibilmente bene; terza, gli insegnanti e in particolare quelli che insegnano nel biennio della secondaria superiore: che è un po’ l’ultimo luogo, secondo noi, nel percorso scolastico, dove di fatto si riesca a fare della vera formazione e sensibilizzazione alla scrittura». Molti dicono: non so scrivere, sono negato. Per scrivere bene o quanto meno correttamente bisogna possedere delle particolari doti 'naturali' oppure la scrittura è qualcosa che può essere appresa da tutti? «La mia insegnante di Lettere delle medie diceva: la scrittura è un dono, c’è chi ce l’ha e chi non ce l’ha. Secondo lei io ce l’avevo. Lei era una borghese benestante, io ero un borghese benestante, i compagni di classe che secondo lei non avevano il dono erano quelli poveri o comunque con scarsa o nulla tradizione culturale in famiglia. Al contrario io credo che sia possibile insegnare più o meno a tutti, così come più o meno a tutti si insegna a guidare l’automobile, un certo numero di tecniche e di pratiche di base che permettano, quantomeno, una scrittura corretta, chiara ed efficace. E ritengo che sia preciso dovere della scuola pubblica insegnare a tutti un certo numero di tecniche e pratiche di base che permettano una scrittura corretta, chiara ed efficace. Viviamo in una democrazia, dove ciascuno ha il diritto di dire la sua: quindi ha il diritto di essere messo nelle condizioni di dire la sua con correttezza, chiarezza, efficacia». Alcuni lamentano il fatto che a scuola gli insegnanti siano bravi a insegnare la letteratura, ma poco la scrittura e le sue tecniche. Condivide questa critica? «Mi domando: ma quando mai gli insegnanti della scuola secondaria sono stati formati perché diventassero dei buoni insegnanti di scrittura, di argomentazione, di narrazione? Non prendiamocela con loro, ma con chi ciecamente ha non-gestito la loro formazione». In che modo andrebbe cambiato l’insegnamento dell’italiano a scuola, soprattutto in vista di un’efficace didattica della scrittura? «Ho un solo consiglio per gli insegnanti: cerchino di addestrare i ragazzi a forme di scrittura che essi possano sentire come reali, come realmente esistenti nel mondo. Una cartolina dalle vacanze è più reale di un tema sui poeti comico-realistici del Duecento; e può essere l’occasione per un intensissimo microgioco didattico. Al ministero, al legislatore, direi: scendete dal palco. Ammettete che non c’è un soldo, e che le scelte degli ultimi anni sono state dovute a questo e non alle proclamate e false intenzioni di riforma. Così poi, magari, si può creare tra legislatore e ministero e insegnanti e ragazzi e famiglie un clima di fiducia». Come dovrebbero legarsi tra loro lettura e scrittura nell’insegnamento scolastico? Glielo chiedo perché spesso si consiglia ai ragazzi di leggere per poter migliorare nello scritto, ma poi non sempre le due cose sono in un rapporto causa-effetto. «Nell’operetta morale in cui mette in scena il vecchio Parini nelle funzioni di pedagogo di un giovane letterato, Leopardi gli fa dire (e sarà stato certamente il suo pensiero): finché non capisci quant’è difficile fare una frase fatta come si deve, non potrai capire le bellezze e le finezze dei grandi scrittori. Direi: fate scrivere di più i ragazzi, migliorerà la loro capacità di lettura, impareranno a far entrare in cortocircuito scrittura e lettura». Le scuole di scrittura che si sono diffuse e affermate in Italia negli ultimi decenni secondo lei hanno prodotto buoni risultati sul piano creativo? oppure hanno incrementato le illusioni e le frustrazioni di tanti aspirantiscrittori? «Per rispondere dovrei conoscere i percorsi di studio e professionali di una quantità di persone; e non li conosco. La mia impressione è che cent’anni fa un giovane si faceva fuori i risparmi per andare a vivere a Firenze e frequentare i ragazzacci della rivista La Voce; il suo collega di oggi si iscrive a una scuola. Girerei cioè la domanda: quali sono i luoghi di formazione degli scrittori, oggi come oggi? C’è qualcosa di alternativo alle scuole di scrittura?» Come giudica un’esperienza come quella della trasmissione televisiva “Masterpiece”? Si è trattato di un’operazione culturale apprezzabile oppure di un format che rischia di banalizzare la complessità del processo letterario? «Masterpiece è un programma televisivo con le sue logiche. Non è escluso che possa finire con il valorizzare qualcuno che vale davvero, anche se non è certo quello il suo scopo. Per esempio non il primo classificato, che è stato venduto come 'caso umano'; non la seconda classificata, il cui romanzo mi pare un buon esempio di letteratura semplificata; ma il terzo classificato: Stefano Trucco, che ha scritto un buon romanzo, Fight Night, in uscita per Bompiani in questi giorni». 
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