sabato 17 novembre 2018
A Milano la cerimonia conclusiva del premio per la critica militante promosso da Avvenire e Università Cattolica: nel segno dell’impegno gli interventi dei vincitori Raffaele Manica e Andrea Caterini
L'invito del Premio Bonura: cari scrittori, tornate a essere civili
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Aveva fama di incontentabile, ma forse questa volta a Giuseppe Bonura il dibattito non sarebbe dispiaciuto troppo. Non tanto perché si è parlato di lui, ma perché finalmente gli si è data ragione. «Finora mi sono riferito alla letteratura, ma il discorso vale per la po-litica, vale per la società nella sua interezza», scandisce l’italianista Raffaele Manica, vincitore del premio per la critica militante che proprio a Bonura è intitolato.

La cerimonia si svolge presso l’Università Cattolica di Milano, all’interno delle manifestazioni di BookCity e all’incrocio di un’irripetibile serie di ricorrenze: i cinquant’anni di Avvenire, di cui Bonura è stato fin dalla fondazione il più autorevole – e temuto – critico letterario; il decennale della scomparsa di Beppe, come ancora lo chiamiamo in redazione (nato a Fano il 25 dicembre 1933, è morto a Milano il 14 luglio 2008); il centenario di Vita e Pensiero, la casa editrice della Cattolica, l’università presso il cui Centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita” sono conservate le carte di Bonura e di altri importanti scrittori del Novecento. Promosso da Avvenire in collaborazione con il Centro, il premio torna dopo alcuni anni di pausa con una formula rinnovata: dopo essere stato proclamato dalla giuria, il vincitore indica a sua volta un critico non ancora quarantenne.

A dividersi il riconoscimento sono dunque Manica (professore a Tor Vergata, curatore delle opere di Enzo Siciliano e Alberto Arbasino, autore tra l’altro del recente Praz edito da Italosvevo) e il giovane Andrea Caterini (da poco è uscito da Castelvecchi il suo Vita di un romanzo, saggio narrativo sulla Recherche di Proust). La cerimonia di premiazione ha anzitutto lo scopo di ridare cittadinanza a parole che, anziché ferire, sappiano costruire relazioni, come ricorda il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio. Ma è anche un’occasione di dibattito, a partire da una domanda di ingannevole semplicità: quali lettori per la critica oggi? Tocca a Manica dare l’avvio alla discussione, ammettendo la discontinuità con un passato che rimane irripetibile e quindi non può essere rimpianto. «La cesura in realtà si colloca già negli anni Sessanta – spiega –, quando vengono meno alcune consuetudini editoria- li e giornalistiche. Da allora in poi cade la titolarità delle rubriche di critica letteraria, che con la loro cadenza regolare permettevano al lettore di inserire in un quadro più ampio i giudizi di volta in volta espressi. E si interrompe l’esperienza delle riviste, che fino ad allora aveva svolto un ruolo fondamentale all’interno della nostra civiltà letteraria. Nella fase attuale il critico si ritrova a vivere e operare in un costante stato di ansia, che deriva dalla messa in discussione del principio di autorevolezza, dal tramonto della capacità argomentativa, dal predominio delle opinioni. Ma anche in questo, lo ripeto, la letteratura non fa eccezione rispetto al resto della società».

Tema caro a Bonura, questo della corrispondenza tra dimensione civile e testimonianza letteraria. Lo riprende l’italianista Giuseppe Langella, direttore del già citato Centro di ricerca della Cattolica: «Mi tornano in mente due libri degli anni Novanta – dice –, Notizie dalla crisi di Cesare Segre e Dopo la fine di Giulio Ferroni, documenti di quella che può essere considerata l’ultima stagione nella quale al pensiero critico è stata riconosciuta una funzione determinante. Oggi, a mio avviso, un ambito di intervento civile è offerto dalla scuola, dove il Novecento è ancora troppo poco studiato». Eppure, a dispetto di tutto, alcune pratiche del secolo scorso sono ancora vive, ancora utili. Il pendolarismo tra l’attività di scrittore e quella di critico, per esempio, già caratteristica del lavoro di Bonura: «Ascoltare le voci degli altri permette di usare con maggior consapevolezza la propria – osserva Lisa Ginzburg –. Per un narratore leggere un romanzo significa scegliere un filo, uno solo, all’interno di un ordito che resta comunque intricato e complesso. Si tratta di un’operazione che, per quanto mi riguarda, trovo molto utile, perché permette di sviluppare una maggior consapevolezza».

Le fa eco Massimo Onfori, anche lui firma di Avvenire e anche lui giurato del “Bonura”: «L’onestà del critico non consiste nell’assenza di pregiudizi, ma al contrario nel sapere di averli e nell’impedire che prendano il sopravvento. Allo stesso modo, anche la stroncatura più severa non deve mai toccare la persona dell’autore la cui opera si contesta. Quando parliamo di sparizione della critica, stiamo in realtà parlando di sparizione delle persone». Nato nel 1981, Andrea Caterini riassume infine il punto di vista di una generazione che, afferma provocatoriamente, «ha scelto di non crescere», assoggettandosi a un modello omologato di espressione letteraria. «Molti autori oggi scrivono come se il Novecento non fosse mai esistito – denuncia –. A questo punto, riscoprire il legame con la tradizione è un’esigenza civile, oltre che letteraria ». Sì, questa volta Bonura sarebbe d’accordo. Decisamente d’accordo.

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