mercoledì 30 settembre 2015
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Se un giorno vi capiterà di fare il tifo per un calciatore africano nato in Benin, potrebbe essere tutto merito suo. Miriam Peruzzi, trentenne aretina con il calcio nel sangue, lavora da qualche anno come scout al servizio del pallone italiano. Il suo compito, selezionare giovani promesse in giro per il mondo da proporre ai club di casa nostra. Mestiere carico di fascino, ma pure di insidie, a causa di convinzioni radicate in secoli di tradizione. Sembrava una sfida impossibile ma lei, lo dicono i risultati, ce l’ha fatta. Una donna scout in Africa per scovare i campioni del calcio del prossimo futuro. Quali erano le premesse del suo viaggio?«In Italia non c’è spazio per i giovani e per la meritocrazia. E se sei donna, le difficoltà per emergere sono ancora di più, soprattutto in un lavoro come il mio, da sempre a uso e consumo degli uomini. Avevo bisogno di cambiare aria, di andare a cercare altrove le ragioni del mio impegno. L’obiettivo principale non era scovare campioni, ma dare vita a un progetto che consentisse ad alcuni giovani di avere una chance nel nostro Paese. Oggi e nel prossimo futuro. È stata un’esperienza straordinaria, ricca di emozioni e di sorrisi. Quelli dei bambini che da quelle parti fanno ancora festa se possono giocare con un pallone».Si dice che lo sport parli lingue diverse a seconda del contesto sociale in cui è inserito. Qual è la lingua del calcio africano?«È la lingua dei sogni e delle speranze che non muoiono mai. In Africa c’è un attaccamento alla terra che noi abbiamo perso ormai da tempo. E poi c’è ancora una grande voglia di ascoltare e raccontare. Di lasciarsi contaminare e trascinare in territori inesplorati. Ai bambini non sfugge nemmeno una parola: sono attentissimi, hanno voglia di imparare. Al contrario di quanto accade dalle nostre parti, dove è diventato tutto più freddo, più distaccato. Ecco, in Africa si comunica ancora: si parla, si discute, ci si confronta. E lo sport è un modo per stare insieme, per fare amicizia, per dimenticare almeno per qualche ora i problemi del quotidiano».  In Benin il suo lavoro non è passato sotto traccia. «Grazie all’invito di un collega del posto ho conosciuto una realtà splendida. Ho visitato i centri di formazione sportiva, sono stata ricevuta dal ministro dello Sport. Ho detto la mia circa l’organizzazione degli impianti e in merito alle possibilità di sviluppo. Il Benin è un Paese che può dare moltissimo al calcio europeo, che a sua volta può fare molto per migliorare la qualità di vita dei suoi abitanti. Hanno voluto che diventassi il presidente d’onore di tutte le scuole calcio del Benin: un regalo inatteso e di grandissimo prestigio. Mai nessuna donna bianca aveva ricevuto un simile riconoscimento». Nel corso del suo viaggio ha preso nota di giocatori interessanti?«Sono una decina i giovani che ho individuato per fargli sostenere un provino con alcune società. I primi due sono già arrivati a Udine, il mese scorso. Entro dicembre accompagnerò in Italia tutti gli altri. È la prima volta che giocatori del Benin si misurano con le difficoltà del nostro calcio». Sarà un’avventura che graverà sul bilancio delle loro famiglie?«Certo che no. Del viaggio ce ne occuperemo noi, sarà interamente a carico nostro. Sia all’andata, sia al ritorno. Del vitto e dell’alloggio se ne occuperanno, invece, i club che li ospiteranno per il periodo di prova. Sia chiaro: non è un viaggio della speranza. Se non verranno ritenuti idonei, torneranno nel loro Paese per proseguire il loro percorso di formazione, sportiva e scolastica. Noi lavoriamo in questo modo, ma le cose non vanno sempre così. Capita piuttosto spesso che i minorenni che non passano le selezioni vengano lasciati per strada, a sbrigarsela da soli, senza alcun aiuto da parte di nessuno». Per Willy Sagnol, ex gloria della Francia degli anni Duemila e attuale allenatore del Bordeaux, i “calciatori africani hanno il vantaggio di costare poco e di essere pronti a tutto sul terreno di gioco”. Condivide?«Sì, è vero, ma oltre a questo va aggiunto che rispetto ai giocatori europei hanno una prestanza fisica che sul terreno di gioco può fare la differenza. Hanno fame di arrivare, danno sempre il massimo perché vogliono giocarsi fino in fondo l’occasione di cambiare vita. Il limite? Non hanno alcuna esperienza in materia di contratti e quando cominciano a guadagnare denaro si trovano in difficoltà, perché non sanno come gestirsi». Quali sono le qualità che cerca in un calciatore? Il talento viene sempre prima di tutto?«Assolutamente, no. Nel calcio moderno, conta soprattutto il cervello, la capacità cioè di superare le difficoltà e di garantire una continuità importante. Altrimenti, tutti gli sforzi fatti per raggiungere il traguardo rischiano di venire compromessi. Il talento è necessario per fare i primi passi, poi conta la testa. Che può spesso contribuire in modo determinante a sopperire ai limiti sul campo. Per intendersi, ho visto moltissimi giocatori di talento non andare oltre i dilettanti, perché non riuscivano a districarsi tra le tante necessità di un impegno vero, da professionista. Ma allo stesso tempo posso dire di avere seguito da vicino la parabola straordinaria di calciatori che non erano particolarmente dotati sotto il profilo tecnico. Ogni atleta è un patrimonio di se stesso: se non sei pronto ad amministrarti a dovere, non puoi pensare di arrivare in alto». È stato difficile trovare spazio in un ambito da sempre sotto il controllo più o meno assoluto degli uomini?«Difficilissimo. Vero, se sei preparata e sai dove vuoi arrivare, in qualche modo riesci a fare la tua parte, ma non nascondo di aver avuto molti problemi a cogliere le opportunità che desideravo. La diffidenza nei confronti delle donne scout nasce dal fatto che fino a poco tempo questo lavoro veniva svolto quasi esclusivamente da ex calciatori. Le società non ti concedono udienza perché pensano che tu non conosca a fondo la materia». Problema che non la riguarda: la sua è una passione nata sui campi di calcio della provincia di Arezzo. «Sono stata fortunata, perché ho respirato calcio da quando ero nella culla. Merito di mio papà, che ha fatto prima il giocatore e poi l’allenatore. Lo seguivo agli allenamenti e nelle partite. Il pallone mi è entrato nel sangue e oggi è il mio lavoro. Non poteva andare diversamente».
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