mercoledì 2 settembre 2009
Il 3 settembre 1989 moriva in Polonia in un incidente stradale. La moglie Mariella: «La semplicità e il rispetto per tutti a cominciare dagli arbitri ne fanno un esempio anche per i giovani d'oggi».
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"Non perché era mio marito, ma uno come Gaetano nel nostro calcio non si è più visto...». Non possiamo che confermare, uno come Gaetano Scirea nello strano mondo del pallone italiano è stato come una di quelle lucciole compiante da Pier Paolo Pasolini. Scomparse. Vent’anni fa (il 3 settembre 1989), in un maledetto incidente d’auto, in Polonia, ci salutava per sempre l’uomo di campo al quale un altro poeta, Walt Whitman, avrebbe potuto dedicare i suoi versi: «O capitano! Mio capitano!». Tranne quello sullo zigomo destro, nessun neo nella breve ma esemplare esistenza del capitano della Juventus e della Nazionale, la cui corsa finì ad appena 36 anni.Per umiltà, campione del mondo lo era diventato ben prima di alzare la Coppa al cielo di Spagna ’82. L’amico leale di tutti i compagni di squadra, un ragazzo di poche parole, ma che comunicava con gli occhi, rivolgendosi soprattutto ai tifosi, cui sentiva di rendere conto come fosse la sua famiglia. «Quante volte Gai dopo l’allenamento mi piombava a casa all’ora di pranzo con quattro sconosciuti. Diceva: “Mariella, questi signori hanno fatto centinaia di chilometri per venire a vedere la Juve e ho pensato che dovevano pur mangiare qualcosa...”. Ecco, questo era Gaetano Scirea fuori dal campo». È il ricordo amorevole di Mariella che è rimasta da sola con un figlio, Riccardo (oggi lavora nella Juventus), che allora aveva 11 anni. «Il vuoto che ha lasciato Gaetano, io e Riccardo abbiamo cercato di colmarlo seguendo la sua scia. L’insegnamento più forte sta nel profondo rispetto che aveva per il prossimo, per quelli che si alzano al mattino presto e vanno in fabbrica o che fanno un lavoro normale. Scirea, prima di tutto giocava per il pubblico. Per quelli che si identificavano in una maglia bianconera e ai quali non avrebbe mai negato un sorriso e tanto meno un autografo. Quando diventò il capitano della Juve, non tollerava che qualche suo compagno si potesse esimere dal firmare un autografo a un tifoso. “Un giorno, quando avrai smesso di giocare, - gli diceva - rimpiangerai le attenzioni di questa gente che adesso ti considera una persona importante”...».Rispetto per tutti a cominciare dagli arbitri che, in 377 gare in serie A, non hanno mai dovuto annotare sul cartellino rosso il suo n°6. «Gaetano - ricorda Mariella - vinse la prima edizione del “Premio fair-play” indetto dall’Aia. In campo li chiamava tutti “signor arbitro” e loro quando smise di giocare gli mandarono una lettera in cui gli scrissero: “Non solo abbiamo perso un grande capitano, ma una persona che ci ha sempre capiti e aiutati”». Nel grande caos del circo pallonaro odierno, la speranza è che qualcosa dello “stile” Scirea sia rimasto anche in questa Juve. «Presi uno per uno - continua Mariella Scirea - sono tutti ragazzi d’oro. Del Piero quando arrivò a Torino, venne a vivere vicino a casa nostra e lo coccolai come una seconda mamma. Molinaro è un ragazzo molto sensibile e che ama fare le cene con i tifosi e confrontarsi con la gente. Questo è lo spirito familiare che aveva la Juve di ieri e che spero riesca a riproporlo anche quella attuale che ha un grande tecnico come Ciro Ferrara, al quale la società ha messo a disposizione una signora squadra». Nello staff di Ferrara lavora anche Riccardo Scirea che da quest’anno guida una formazione giovanile della Juve e vorrebbe coronare quello che era il sogno di suo padre: diventare allenatore. Il padre, il marito, il campione che il 23 settembre a Morsasco, come ogni anno, nella cappellina del cimitero in cui riposa verrà ricordato con una Messa. «Arrivano sempre tante persone e da tutta Italia. C’è chi porta un fiore, chi una sciarpa o una lettera. Cerchiamo di ricordare Gai con serenità. E io sorrido ripensando ai tanti momenti divertenti vissuti insieme. Come quel giorno che tornò con una Fiat 131, diciamo “color tortora” che era semplicemente imbarazzante. E lui con quel bel sorriso pulito di sempre, mi fa: «Oh, è una Fiat, me l’hanno passata e io la guido...».
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