Gli eroi, le imprese. È il titolo di un capitolo di un’opera che mi riguarda direttamente, essendo,
Il necessario incanto, pubblicato nel 2006, un libro in cui Fabrizio Pagni, studioso della mia opera, mi intervista a tutto campo. Inevitabili, in un pezzo come questo che il lettore si accinge a leggere, i riferimenti autobiografici, da cui di regola tendo ad astenermi. Ma qui è obbligatorio entrare nel nucleo della questione: il capitolo citato è quello in cui Pagni mi interroga sulla mia passione e vocazione e produzione poetica nei confronti di modelli eroici, dagli esploratori dell’Antartide a Enea ad alcuni campioni dello sport. Campioni particolari, capaci di suscitare epica non solo nel compimento dell’azione agonistica, ma nella coincidenza di esecuzione e superamento della stessa. Tardelli, Scirea, Stefania Belmondo, per essere precisi. Tre eroi, tre poesie. Quella dedicata a Scirea fu scritta qualche anno dopo la sua morte, per una suggestione alla vigilia dei Mondiali del ’90. Uscì nel volume mondadoriano dello Specchio (1997) poi in antologie e edizioni straniere, come accade. Pagni si sofferma molto su questo tema. Oltre che critico letterario e poeta, è stato, e continua a essere, ora, marito e padre, amatorialmente, ciclista. Conosce le componenti ascetiche dello sport, la lotta contro se stesso, che è il primo passo iniziatico dell’atleta. Prima dell’avversario, combatti contro un’ombra, una parte di te. Quell’ombra, quando cresci tecnicamente e sapienzialmente, assumerà la fisionomia dell’avversario, di ogni avversario. A volte mitico, come Ettore di Troia: Estiarte, il campione dei campioni della pallanuoto di ogni tempo, comandante della squadra spagnola battuta dal nostro leggendario Settebello (i Porzio, Attolico, Campagna, Fiorillo, eroi da brivido) era il più grande di tutti. Gli azzurri di Rudic compresero che avevano vinto contro la Spagna (e l’arbitro, per essere precisi), ma battuto il mitico Estiarte. Che nella sua grandezza assoluta, era l’ombra e l’anima di tutti loro. Normale che poi, ritiratosi dall’agonismo, divenisse, prima ancora che loro tifoso, affratellato. Era l’Altro del Settebello. Ettore- Estiarte, l’Altro di Agamennone, Aiace, Ulisse, Achille. L’ombra dell’Avversario, di ogni vero avversario era, ab origine, in nuce, la tua. Qualcosa di molto simile, senza il ricorrere al termine “ombra” - che faccio mio da Platone, dai poeti metafisici inglesi del Seicento, da Conrad - mi aveva detto molti anni prima (dopo l’urlo del Bernabeu), Marco Tardelli. Che era al mio fianco, una sera del 2006, alla presentazione milanese del libro in questione. Era stato invitato come relatore, principalmente per la parte riguardante lo sport, ma aveva divorato ogni pagina, ama i libri. Dialogò, con il critico Francesco Napoli e con me, sulla relazione tra la vita, la poesia, l’agonismo, la ricerca dell’armonia e della felicità. Quando aprii il libro di poesia per leggere ’82, Scirea, anticipò un mio desiderio, che forse non avrei osato esprimere, così, fuori programma, in pubblico, di colpo. Prese con delicatezza il volume dicendo, «Questa, se mi concedi, la leggerei io». Gli sorrisi, emozionato. «È roba tua, ma anche mia», concluse. E poi lesse, benissimo, nella sala ammutolita. Fermo.Virilmente recitante, ma, al verso finale, una lacrima. Scirea era mite, elegante, al telefono non si negava a nessuno. Era gentile fuori e in campo. Un difensore glorioso, trionfatore, mai espulso. Attenzione. Non cadiamo nel padanismo machista di Brera (peraltro eccellente scrittore, di calcio, nomi, suoni) quando definisce Scirea calciatore di grande classe ma non difensore assoluto. Non c’è solo il Gallo con le corna e le pelli, a difendere i suoi campi e le sue greggi, ma anche il generale ateniese che polverizza con l’ingegno l’armata e la flotta dei Persiani. Chi difende senza dover colpire, e rilanciando in avanti, non è un’anima mite, ma un intelletto superiore. E in una creatura armonica come quella Juve e quella Nazionale, accanto al furore agonistico, omerico, di Gentile e Tardelli, allo slancio olimpico, volante, di Cabrini, faceva luce il disegno elegante, incorporeo di Scirea. Vede prima. Disegna nella mente e immediatamente nella corsa, nei piedi, il campo. Anticipa i movimenti, di un attimo. Il genio di Polansky, giunge un istante in anticipo e simultaneamente. Non batte l’avversario, supera la di lui ombra invisibile, antesentendone il respiro, come Mick Jagger con il pubblico in tensione orgiastica. Il suo corpo obbedisce a un istinto, un’intuizione della mente. La sua falcata, le sue accelerazioni naturali, quasi impercettibili, le sue soste non nervose, ma come plananti… in questo geniale movimento di anticipo lo sport recupera di colpo, anche in una partita che noi vediamo in televisione, il valore rituale e simbolico con cui si manifestò in origine; perché lo sport nacque come esorcizzazione e messa in scena, teatralizzazione della guerra. In quel suo procedere apollineo, in quello sguardo sempre diretto all’orizzonte, mai troppo in basso, livello tacchetti, mai troppo in alto, sempre radente, da angelo wendersiano, avevo intuito un destino mitico… Morì giovane, combusto, passando dalla terra alla sostanza dell’aria, come bruciato da una folgore... Altri tempi. Niente cellulari, email, quando scomparve. Torno con Teresa da Monaco di Baviera. Verso le otto. Mi telefona mio padre, mi dice: «Scirea…». Scoppio in lacrime, senza alcun controllo, mia moglie ha già acceso e si vedono Ciotti, Gianna Nannini e Bennato che se ne vanno rinunciando a cantare la canzone per i Mondiali imminenti. Tardelli era ospite, dicono. Non ha retto, è stato male. Sta piangendo con me, ora, lo sento accanto a me, in un’altra stanza, altra città, accanto. La sua voce ha letto i miei versi su Scirea, tanti anni dopo. Con quelli finali concludo questo pezzo un po’ troppo autobiografico. Ma ogni storia d’amore è un’autobiografia. «E non fu necessario alcuno scontro,/ sempre agì di previsione anticipando, / sempre determinò il lancio in solitudine,/ nel cuore della partita ed estraneo al suo strepito,/ (…) Lui più di tutti ricordo,/ che diresse l’esercito e antevide/ ogni mossa dell’avversario e disegnò la vittoria,/ tracciò la scia nell’alta marea».
(11, fine)