Lo stadio di San Siro nel 1926
Guarda caso c'è anche la scighera, la nebbiolina nebulizzata, umida, così novembrina, così da vecchia Milano, a fare da sottolineatura a un derby che in ogni caso, salvo ennesimo contrordine, rimane sicuro nella storia di questo italico pallone. Perché il 13 dicembre anche il Milan, dopo l'Inter, lascia la compagnia del made in Italy e finisce in libri contabili con intestazione e note in ideogrammi: il closing - giusto per rimanere in tema di esterofilia, trattasi di “passaggio di proprietà” - è lì dietro l'angolo, e pure se anche tira ancora uno spiffero di rinvii, Milan-Inter del 20 novembre 2016, da tutti presentato come prima stracittadina dell'era cinese, è in realtà l'ultima della lunga era italiana, iniziata nel remoto 1908, anno di una scissione che ha diviso in due la passione e la gloria sportiva di una città.
Già, Milano. La capitale - presunta - della ricchezza, l'ultimo baluardo di un orgoglio italiano dell'impresa, del successo. E invece, insieme a tanti altri marchi, simboli prestigiosi, anche le due portabandiera di una grandeur installata tante volte sulle cime del football europeo e mondiale finiscono in mani altrui, mani che possono infilarsi in tasche piene - forse - e capaci, mani che però non sanno ancora modellare calcio, come dimostrano i recenti e ravvicinati inciampi dell'Inter, che affronta la sfida più classica con un tecnico nuovo di zecca, Stefano Pioli, è il quarto in quattro mesi. «Emozioni forti, sensazioni giuste», ha detto il neo-mister del Biscione nella sua prima conferenza di vigilia al quartier generale di Appiano Gentile, allegando poi la convinzione che il derby, per l'Inter in crisi di identità e di risultati, è la partita, fondamentale per il morale, il primato cittadino, per un classifica che in caso di esito negativo prenderebbe definitivamente la piega brutta delle stagioni no.
Dalla tribuna, Pioli avrà addosso gli occhi di Steven Zhang, il figlio del boss Suning, candidato - dicono - al ruolo di presidente nerazzurro in vista del non lontano distacco di Erick Thohir, vincitore sul piano finanziario, perdente secco su quello di amministratore della gestione sportiva e societaria. Poco più in là, Silvio Berlusconi. È dato per presente, anche l'ultima volta, non solo la prima, non si scorda mai: anche perché la prima non fu proprio felice, aprile 1986, sconfitta beffarda firmata dal carneade nerazzurro Minaudo. Sarebbe stato importante, significativo, che avesse a fianco qualcuna delle facce nuove provenienti dalla Cina, accompagnate per mano dentro uno dei posti più importanti del cuore milanista e milanese: come non detto, protagonisti ed interpreti della nuova era rimangono avvolti nella curiosità, se non si vuole proprio scrivere mistero. Lì in giro, allora, ci saranno i soliti, capitanati da Adriano Galliani: gruppo di famiglia rossonera in un interno velato comunque di una malinconia che forse permea anche i nemici dell'altra parte della barricata.
Perché dentro San Siro, e fuori, ci sarà una Milano che, anche e soprattutto per la perdita dei suoi rossonerazzurri, viene certificata di una nuova povertà. Chissà se fosse stato ancora in circolazione il grande Gianni Brera, massimo aedo della città e delle sue squadre. Giusto 40 anni fa, stimolato dal direttore (napoletano) del “Giorno”, il Grangiuann scrisse un memorabile articolo sulla possibile perdita per la città del suo massimo simbolo gastronomico, il panettone, determinata dalla contemporanea crisi di Motta e Alemagna. Perdiamo il panettone, chiosò, e perderemo anche la nostra identità di milanesi, la nostra libertà, la nostra serenità conquistata con il lavoro di ogni giorno. Non è proibito, proprio per nulla, pensare che l'Inter diventata "Inda" e il Milan diventato "Mila", susciterebbe in Brera, e non solo, gli stessi cattivi pensieri.