mercoledì 16 dicembre 2015
Il cosiddetto «illusionismo» fa dipendere la libertà unicamente da meccanismi cerebrali inconsci. Con il risultato di annullare la responsabilità e il merito (ma anche l’eventuale colpa) delle azioni umane.
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Alcune domeniche fa, il rito ambrosiano ha proposto due letture che hanno alimentato nei secoli, forse più di altre, il dibattito teologico. La prima è il brano di Paolo agli Efesini che ricorda come siamo stati «salvati per grazia mediante la fede e non per le opere», mentre nella pericope evangelica Matteo narra la parabola degli operai nella vigna, tutti retribuiti nella stessa misura dal padrone, indipendentemente dalle ore lavorate. Può colpire chi si occupi della discussione filosofica contemporanea sul libero arbitrio una certa consonanza tra l’idea della gratuità della salvezza donata al di là dei nostri poveri sforzi, sostanzialmente inutili malgrado siamo spesso convinti del contrario, e un recente filone di riflessione che ritiene illusoria la libertà umana, con l’importante conseguenza di demolire l’idea di merito.

Certo, il Catechismo della Chiesa cattolica dice esplicitamente che l’uomo ha la proprietà di autodeterminarsi al bene o al male e di ciò si assume la responsabilità. Quello che qui si vuole sottolineare, tuttavia, è come una tesi controversa, frutto della recente spiegazione scientifica dell’essere umano, possa confliggere, in modo simile all’annuncio cristiano, con il modo in cui tipicamente agiscono le nostre prime intuizioni morali. Gli studiosi che negano il libero arbitrio partono da una serie di constatazioni, nessuna delle quali trova ancora ampio consenso, per giungere alla loro radicale conclusione. Innanzi tutto, il determinismo naturale, per cui tutto nel mondo è soggetto a leggi invariabili che legano gli eventi in catene immodificabili a partire dal loro avvio; poi argomenti concettuali che sembrano indicare come la mente non possa essere la vera causa delle nostre azioni, suscitate invece dal cervello.

Infine, l’emergere di un paradigma che riduce lo spessore dell’io consapevole e razionale a favore di meccanismi automatici inconsci: in questa linea rientrano i noti esperimenti di Libet, tesi proprio a mostrare come le nostre azioni abbiano inizio nel sistema nervoso prima che noi ce ne rendiamo conto. Non c’è qui spazio per illustrare tutte le obiezioni a queste tesi. Ciò che conta è che, se non siamo liberi, cade anche la nozione, centrale nelle nostre esistenze e nelle nostre società, di «giusto merito». Che senso ha punire o premiare chi non poteva agire altrimenti, chi non poteva che fare quello che ha fatto, malgrado l’apparenza del contrario? In questo senso, dicono i sostenitori del cosiddetto «illusionismo» circa la libertà umana, non avremo una perdita di valore dell’esistenza, perché potrebbe cadere la "rabbia" morale che spesso avvelena le nostre vite. Potremmo, anzi, concentrarci sulle cause sistemiche delle ingiustizie e della povertà, dato che non dovremmo più biasimare i singoli per non essere riusciti ad avere successo e non dovremmo nemmeno lodare o ricompensare in modo speciale coloro che invece hanno raggiunto traguardi significativi. Anche il modo di amministrare la giustizia penale sarebbe destinato a mutare, in quanto gli autori dei delitti sarebbero da considerare più dei malati che dei criminali, e andrebbero pertanto trattati di conseguenza. È stato infatti proposto che i condannati vengano posti in una sorta di quarantena piuttosto che in prigione, poiché misure afflittive non risulterebbero moralmente giustificate, mentre un periodo di isolamento potrebbe sia proteggere la società dai pericoli di una reiterazione del reato sia permettere al reo di redimersi. Ma questo approccio, che unisce una visione scientifica e materialistica dell’essere umano a una posizione sociale "progressista", sembra cozzare, come detto, con le nostre intuizioni morali primarie.

Lo si vede, ad esempio, nei numerosi esperimenti condotti con il cosiddetto gioco dell’ultimatum. Il meccanismo è semplice: partecipa una coppia di individui che non si vedono tra loro; al primo viene data una somma di denaro (10 euro) che deve distribuire come vuole tra sé e l’altro giocatore; se il secondo accetta l’offerta, entrambi possono tenere i soldi; se invece rifiuta, nessuno prende alcunché. A tutte le latitudini, si tende a rifiutare offerte troppo basse, anche al costo di non guadagnare nulla, laddove sarebbe più razionale accettare anche un euro (che è meglio di niente).

C’è dunque un senso innato di "giustizia" che si accompagna, come mostrano altri esperimenti, a una concezione retributivistica, per quale è "giusto" punire chi si comporta male, tanto che molte persone sono disposte a pagare un prezzo personale affinché i "colpevoli" non la passino liscia. Sono le reazioni che probabilmente abbiamo anche di fronte alla parabola evangelica: perché i lavoratori venuti nella vigna alle cinque del pomeriggio sono pagati come quelli arrivati all’alba? Non lo meritano, non è giusto. Eppure, la giustizia del Vangelo è più alta e, per questo, più difficile. Ci può far riflettere il fatto che, parzialmente, nella stessa direzione controintuiva vada una filosofia che sulla base della scienza nega il libero arbitrio.

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