venerdì 12 agosto 2022
Lo scrittore: «La società senza Dio ha finito per essere prigioniera di una certa schizofrenia fra la credenza e una fede ragionevolmente vissuta. Abbiamo perduto il senso del mondo e della vita»
Lo scrittore Eric-Emmanuel Schmitt

Lo scrittore Eric-Emmanuel Schmitt - / Boato

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È uno degli scrittori francesi più letti al mondo. Presidente della giuria del prestigioso premio Goncourt, il più importante riconoscimento letterario d’Oltrealpe, Eric-Emmanuel Schmitt sarà al Meeting di Rimini il 22 agosto per un dialogo col poeta e romanziere Daniele Mencarelli riguardo 'L’irriducibilità dell’uomo': un viaggio tra Etty Hillesum, Osip Mandel’štam, Primo Levi ed Edith Bruck, alla ricerca di ciò che resta inscalfibile in ogni persona. Schmitt, autore di romanzi di grande successo come Il Vangelo secondo Pilato (San Paolo), La parte dell’altro e Oscar e la dama in rosa (edizioni e/o, che ne pubblica i libri in italiano), ha da poco intrapreso un progetto molto ambizioso: il racconto romanzesco dell’intera storia umana, in otto volumi, intitolata La traversata dei tempi; è da poco in libreria il primo tomo, Paradisi perduti. «Noi uomini sbagliamo a prendercela con gli dei e gli spiriti. Siccome non capiamo le loro intenzioni ce li immaginiamo assurdi, violenti, illogici, arbitrari, collerici, capricciosi e vendicativi, mentre dovremmo fidarci della loro lungimiranza. Non sono cattivi né stupidi, sono previdenti. Invece di dubitare della loro intelligenza dovremmo dubitare della nostra, che raggiunge presto i propri limiti ». Una citazione dal suo ultimo romanzo, che mutatis mutandis potrebbe valere anche per il Dio monoteista.

Perché siamo in balia di un razionalismo così riduttivo?

«Personalmente constato che quando non crediamo più in Dio, si finisce per credere a tutto. Dal momento in cui il monoteismo cristiano ha cessato di avere autorità nella nostra società occidentale, la credenza è come rifluita verso non importa quale credenza, una sorta di religiosità superstiziosa che prende il nome di numerologia, astrologia et similia. Mi sembra che ci troviamo prigionieri di una certa schizofrenia, una sorta di rottura interiore tra il credere razionale e la credenza. Io credo che dentro il cristianesimo sia possibile esercitare la razionalità e lo spirito critico. E quando questo viene meno, si subisce una perdita grande e grave. Abbiamo voluto limitare la razionalità alla logica, alla matematica, alla filosofia analitica. Ma la perdita della razionalità nel credere ci ha fatto smarrire un ancoraggio importante nella riflessione sul mondo e sulla vita».

«Fantasticare ci salva», dice un personaggio di Paradisi perduti. Di fronte al dramma del mondo, il romanzo può salvarci?

«Personalmente, distinguerei tra finzione e letteratura. Ci sono finzioni che non cercano la verità e limitano il senso dell’individuo. Mentre invece la letteratura è l’interrogazione della complessità, molto più di quanto faccia la filosofia, per esempio. Infatti, di solito i filosofi vogliono arrivare all’unità della verità, mentre, se pensiamo all’antica Grecia, i letterati del tempo, ovvero i tragediografi, mettono in scena diverse visioni del mondo e le fanno cozzare le une contro le altre: l’Antigone di Sofocle ne è un’esemplificazione. La letteratura può darci una concezione del mondo più ricca. Per questo penso che la finzione ci dia delle risposte, mentre la letteratura abbia il compito di indagare».

Lei al Meeting di Rimini parlerà dell’irriducibilità dell’uomo. Cosa c’è di veramente irriducibile nella persona?

«A mio parere, quello che definisce l’uomo è la capacità di farsi domande e il fatto di vivere nella contraddizione. Sì, l’uomo è un animale interrogante. A volte si ferma a risposte che diventano degli assoluti, e qui nasce l’intolleranza; altre volte lascia le domande aperte, e in questo modo continua la sua ricerca. Gli esseri umani sono fratelli nelle loro domande: quello che ci può veramente unire tutti è il senso e il porci delle domande. Anche quando siamo credenti, le domande e gli interrogativi devono continuare ad alimentare la nostra ricerca».

E perché l’uomo è contraddittorio?

«Perché è abitato da tensioni continue: quella tra egoismo e altruismo, per esempio. L’uomo è egoista per natura, ma ha un cuore che ama e vive questa tensione. L’essere umano è un luogo dinamico in cui niente è definito per sempre. È proprio dell’uomo essere un soggetto in movimento interiore».

Quali autori, di ieri e di oggi, consiglierebbe a un millennial che voglia appassionarsi all’umano?

«Sicuramente Dostoevskij, con i suoi romanzi fondamentali I fratelli Karamazov e Delitto e castigo. Poi Camus, con La peste. Tra i contemporanei Ismail Kadare».

Perché questi nomi?

«Perché sono autori che fanno riflettere il lettore attraverso i loro romanzi: non pensano al posto del lettore, danno da pensare e da riflettere su cosa sia il giusto e l’ingiusto».

Il titolo del Meeting è 'Una passione per l’uomo'. Nella sua carriera letteraria lei ha indagato Gesù, Hitler, le religioni, la figura femminile, la musica... Di fronte a guerre, pandemie e catastrofi climatiche, perché dovremmo ancora appassionarci all’umano?

«Penso che il motore del progresso nella storia sia il male, ovvero che siano le disgrazie ciò che fa avanzare l’umanità. Ci vogliono le guerre perché si arrivi a un soggetto internazionale come le Nazioni Unite; ci vuole una pandemia per capire cosa e quanto sia importante la salute globale; ci vuole la siccità per comprendere quanto sia grave il riscaldamento climatico. L’umanità non procede verso il meglio ma verso il meno peggio. In questo sono discepolo di Kant. Ma ciononostante, resto ottimista, o meglio un ottimista tragico».

Comunque ottimista?

«Certamente».


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