venerdì 5 agosto 2016
Le storie Enrico e Daniele Garozzo sognano di inaugurare una nuova dinastia di moschettieri, Pietro e Luca Roman di rivivere i successi conquistati in sella da papà Federico. E in vasca il veterano Christian Presciutti trascina il “piccolo” Nicholas.
Scherma, equitazione, pallanuoto: l'orgoglio di quei fratelli d'Italia
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«Sono orgoglioso di appartenere a questa grande famiglia che è l’Italia». È stato questo il saluto finale ad ogni discorso del premier Matteo Renzi rivolto agli atleti azzurri. E nel Villaggio di Rio l’aria di famiglia si avverte un po’ ovunque, specie quando incontri storie di fratelli d’Italia come quella dei Garozzo. Fratelli di spada e di fioretto, i moschettieri catanesi di Acireale: Enrico 27 anni (spada a squadre) iscritto alla facoltà di Scienze motorie («Ma ultimamente pochi esami, mi dedico anima e corpo solo alla scherma») e Daniele (fioretto individuale e a squadre) studente in Medicina che ieri al Villaggio ha festeggiato il suo ventiquattresimo compleanno. Due debuttanti – Enrico a Pechino e a Londra c’era andato da sparring partner – per niente allo sbaraglio, uniti in pedana e soprattutto nella vita. «Luca è il più piccolo e quello che io gli ho trasmesso in consigli ed esperienza lui me lo ridà indietro con l’energia della sua presenza. Quando c’è Luca al palazzetto in pedana riesco a dare sempre qualcosa in più», dice Enrico, che avverte già l’emozione della cerimonia inaugurale di questa sera. «È un sogno che abbiamo fatto ad occhi aperti tante volte da bambini e che sta per avverarsi. Un privilegio che mette i brividi solo a pensarci: entrare al Maracanã e vivere un’Olimpiade insieme a tuo fratello… È come aver portato a casa già un pezzo di medaglia». E le medaglie nella scherma sono da sempre un affare di famiglia e di storie fraterne che si incrociano, dai tempi dei Man- giarotti: Dario, ma soprattutto il pluridecorato Edoardo che dai Giochi di Berlino 1936 a Roma 1960 mise nella bacheca domestica tredici medaglie olimpiche, di cui sei d’oro. Chiusa l’era Mangiarotti, quasi un secolo fa ebbe inizio la grande “accademia di Livorno” avviata da nonno Aldo Montano, proseguita da Mario Aldo alias “Mauzzino”, sciabolatore d’oro a Monaco 1972 con in squadra il cugino Mario Tullio: rispettivamente papà e “zio” (come gli altri cugini olimpionici Tommaso e Carlo) dell’eterno Aldo, che dopo l’oro di Atene nel 2004 a 38 anni a Rio tenta l’ultimo, forse, assalto a cinque cerchi. «Quella dei Mangiarotti e dei Montano – conclude Enrico – è un’eredità pesante, ma io e Luca siamo qui per provare a fare in modo che questo sia solo un inizio. Ma soprattutto, la nostra presenza vuole essere un messaggio di speranza per tutti quei ragazzi del Sud che spesso fanno sport in condizioni disagiate e sono costretti a emigrare». Mentre quella dei Garozzo è una “saga” agli albori, gli amazzoni Pietro e Luca hanno una missione in più da portare avanti, quella della dinastia dei Roman. Nonno Antonio, sottufficiale dell’esercito, aveva fondato la prestigiosa scuola ippica di Opicina ( Trieste) e papà Federico il ricco bagaglio di famiglia l’aveva subito messo in mostra all’Olimpiade di Montréal 1976 assieme al fratello minore, Mauro. Ma per i Roman finora il momento di gloria è stato ai Giochi di Mosca 1980, quando anche qualcuno dall’Italia aveva deciso di boicottare.  Tra le tre federazioni azzurre che votarono il «no a Mosca» ci fu anche quella degli sport equestri. Vicende del secolo scorso, quando alla vigilia della partenza per la Russia papà Federico divenne il tribuno di una squadra che si era sgretolata e privata degli elementi migliori. Volarono a Mosca addirittura senza il maniscalco e il veterinario, figure indispensabili per la cura dei cavalli; eppure nel completo (prova che comprende il dressage, l’endurance – 24 km e 46 ostacoli – e il salto) papà Roman vinse l’oro e conquistò l’argento nella gara a squadre dietro l’Unione Sovietica. Ora nel completo le redini passano a Pietro e Luca che sono nati nove e cinque anni dopo l’oro di Mosca e che considerano «una grande fortuna essere nella stessa squadra». La fortuna è anche quella di avere per allenatore papà Federico, che li ha portati ai vertici nazionali e che vive questa Olimpiade come una sorta di corso e ricorso storico: «Qui a Rio come a Mosca ci sono sempre i russi di mezzo, ieri per il boicottaggio oggi per la questione del doping di Stato che li ha esclusi». Ma il pensiero più forte va alle prossime gare e anche un freddo come Federico Roman confessa di provare una «grande gioia al solo pensiero che sono ancora alle Olimpiadi con Luca e Pietro, che si giocano la loro chance». La gioia di un padre, e quella di un fratello maggiore, l’attaccante veterano del Settebello Christian Presciutti, che tra i sette esordienti dei tredici che compongono la Nazionale di pallanuoto del ct Alessandro Campagna assisterà al debutto olimpico del fratello minore, il difensore Nicholas Presciutti. Undici anni di differenza in vasca tra i due gladiatori (Christian è del 1982, Nicholas del 1993), romani di Guidonia, cresciuti nella Lazio ma uniti anche dalla passione calcistica per la Roma. Christian a ogni gol mette il dito del ciucciotto in bocca come il loro idolo, Francesco Totti. Il capitano del Settebello è Stefano Tempesti, alla sua quinta Olimpiade, ma Christian è il trascinatore e con Nicholas vuole arrivare insieme in cima a quel podio olimpico dove è già salito a Londra quattro anni fa, conquistando l’argento, e prima un oro ai Mondiali di Shanghai (2011). Christian e Nicholas giocano insieme anche nello stesso club, l’AN Brescia, l’unica compagine che riesce ogni tanto a strappare almeno la Coppa Italia all’invincibile armata di Recco contro cui hanno appena perso lo scudetto. Ma i fratelli Presciutti come sempre hanno dato tutto e forse sono pronti ad offrire alla Nazionale anche il terzo rampollo di famiglia: il cucciolo Daniel, diciannove anni, gioca nell’Iren Torino, ha già fatto tutta la trafila delle giovanili azzurre e guarda a Christian e Nicholas sperando un giorno di seguire la loro scia olimpica e di apprendere in fretta quella «cattiveria che non li fa mollare mai».
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