domenica 27 gennaio 2019
L’ex allenatore del grande Parma degli anni Novanta: «Questo sport potrebbe essere un formidabile veicolo di positività tra le persone, invece oggi dominano solo esasperazione e violenza»
Scala: «Questo calcio non lo riconosco più»
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La forza di un insegnamento nella sincerità degli occhi. Oltre vent’anni, una carriera iperbolica, migliaia di incontri, milioni di sguardi. Uno, uno solo, quello che resta impresso. «Si girò verso di me e mi guardò come nessun altro ha mai più fatto. Era furibondo»: Gigi Buffon, in una recente intervista a Vanity Fair, ha ricordato così di quando, appena maggiorenne e già lanciato verso l’empireo calcistico, un giorno si permise di rispondere in malo modo a Nevio Scala, suo allenatore al Parma. Un dettaglio che diventa un macigno nella crescita di un uomo.

Scusi Scala, come lo guardò?

Ero così con tutti i miei giocatori. L’errore può capitare, ma sul comportamento non si transige. Se uno non si rivolgeva a me con rispetto, diventavo molto severo. Ma non lasciavo che l’episodio si consumasse: affrontavo la cosa con tempestività, faccia a faccia. In tutta onestà, non ricordo come lo squadrai. Ma sono certo di avere agito così. E se Gigi ha tratto da quel gesto un insegnamento, a qualcosa era servito.

Lo fece debuttare lei.

Alla vigilia della partita contro il Milan, quando decisi di farlo esordire, salii nella sua stanza in ritiro: “Gigi, e se domani ti facessi giocare?”. La sua risposta mi smontò in un attimo: “Mister, e che pro- blemi ci sono?”. Capii che, anche se avesse fatto degli errori, non avevo sbagliato a credere in lui».

Vi sentite ancora?

L’ho sentito prima che lasciasse l’Italia. Ci siamo detti di non lasciar passare altri dieci anni prima di rivederci.

Quell’episodio parla di educazione e rispetto. Esiste ancora nel calcio a suo avviso?

Il peso del rispetto si è perso in generale nella società. Nel calcio le cose sono diverse: vent’anni fa c’era un allenatore, un preparatore atletico e un preparatore dei portieri: era più facile, il rapporto era diretto. Loro rispondevano a me, io a loro, e sentivo di avere responsabilità nei confronti dei miei ragazzi. Oggi ogni tecnico ha 7-8 tra preparatori e collaboratori vari. Credo che quel rapporto non esista più.

Il segreto era?

Che il gruppo accettasse i miei limiti, e i limiti nel gruppo stesso. Era l’unico modo per lasciare il segno.

Il suo Parma lo lasciò.

I giocatori per me si facevano in due, e io per loro. Se c’è una cosa di cui vado fiero, è sentire qualcuno che, quando capito a Parma, mi dice: “Eh mister, che bello quando c’era lei...”.

Quando tornò, in D, non andò così bene.

Mi chiamarono i sette imprenditori che fecero rinascere il club dopo il fallimento. Accettai, ruoli chiari: non mettevo becco nelle questioni economiche, ero un presidente tecnico, avevo scelto lo staff, con Apolloni, Minotti e Galassi. E a Collecchio non entravano più i procuratori.

Promozione in C, poi il club cacciò la sua triade.

Con la squadra seconda. È vero, non giocavamo bene, ma era ancora autunno. I proprietari mi telefonarono il giorno del mio compleanno, dicendomi che si erano riuniti il giorno prima - senza che io sapessi nulla - e avevano deciso così, chiedendomi di avallare le scelte. Presi carta e penna e lasciai.

Doveva essere calcio “biologico”. Usarono i pesticidi.

Lo dissi nella prima conferenza stampa. Avendo convertito l’azienda agricola di famiglia da tradizionale a biologica, mi venne naturale: c’era da ricostruire, si poteva anche sbagliare senza farne un dramma, mi sembrava una metafora adatta. Poi “biologico” divenne uno slogan, fu strumentalizzato. Ed è pure accaduto il contrario.

Fosse rimasto, sarebbe oggi presidente di una squadra di A.

Feci la cosa più coerente. Sono ancora deluso. I proprietari di allora mi mandarono messaggi di circostanza. Non risposi per evitare polemiche e perché il silenzio a volte è più efficace. Solo uno di loro mi telefonò, dandomi una testimonianza di affetto che certifica la qualità dell’uomo.

Chi fu?

Giampaolo Dallara. Una telefonata che mi fece bene.

C’è qualche altro patron a cui è particolarmente legato?

Rinat Akhmetov, presidente dello Shakhtar Donetsk. Ogni 22 novembre mi telefona per farmi gli auguri, non si dimentica mai.

Fu lei, nel gennaio 2002, ad aprire la strada verso Est.

E pensi che, sino alla chiamata del Borussia Dortmund, non avrei mai pensato di allenare all’estero. Dopo la Germania invece andai in Turchia e, quando un emissario dello Shakhtar mi chiamò, declinai. Mi invitarono prima ad ascoltare l’offerta. Era economicamente inarrivabile e in più trovai persone che mi onorarono.

Lo stadio dello Shakhtar è stato bombardato nel 2014.

Conoscendo la città, ho pensato spesso e con tristezza alla situazione che si è trovata a vivere la popolazione.

A proposito di drammi: è tornata la morte a margine del calcio.

Il calcio potrebbe essere un formidabile veicolo di comunicazione positiva fra le persone, ma dominano esasperazione e violenza. Certi aspetti fanno parte dell’essere umano, e in questo senso credo che tutti coloro che frequentano l’ambiente abbiano responsabilità di cui non si rendono conto. Se l’esempio è negativo, se la cifra è l’aggressività, allora non ci si può assolvere spostando tutto sui delinquenti che hanno programmato l’assalto.

Nella A che ha trovato Cristiano Ronaldo, lei tornerebbe nella mischia?

La domanda mi mette in difficoltà. Dopo Ranieri e prima di Montella ero stato vicino alla Roma, poi col Parma era una storia diversa. Ogni tanto la voglia mi viene. Poi i miei figli mi rimettono in carreggiata, ricordandomi che il calcio mi ha già dato tutto, e io torno volentieri al vigneto. Hanno ragione. Però, nella vita, mai dire mai».

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