Trentacinque anni fa il fuoco di Olimpia rischiarò la notte di Sarajevo. Esisteva ancora la Jugoslavia, la città era unica, la funivia Žicara scarrozzava i gitanti dal centro fino alle pendici del Monte Trebevic e sui trampolini di Igman campeggiavano i cinque cerchi colorati. Le Olimpiadi d’inverno resero celebre la capitale della Bosnia, fino ad allora famosa per l’attentato che nel 1914 innescò la guerra mondiale.
Furono, quelli del 1984, i primi Giochi d’inverno in un Paese socialista, in una città a maggioranza musulmana e con Juan Antonio Samaranch alla guida del Cio: 1.270 atleti, 49 nazioni, 10 discipline e due ori di marca italiana, quelli di Paola Magoni nello slalom e Paul Hildgartner nello slittino.
Appena sette anni più tardi un feroce conflitto stravolse Sarajevo e dintorni, provocando in tre anni centomila morti e due milioni di rifugiati. L’epopea a cinque cerchi fu spazzata via dall’odio etnico e dall’asprezza delle armi. Lo scenario post bellico separò la capitale in due, con la parte occidentale appartenente alla Federazione di Bosnia ed Erzegovina e quella orientale alla Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (Srpska), le due componenti della nazione create dopo l’accordo di Dayton.
Tre decenni e un lustro più tardi rispetto ai Giochi olimpici, la fiaccola della pace, accesa a Roma in gennaio, farà nuovamente il suo ingresso nello stadio Koševo, teatro domani di un’altra cerimonia d’apertura, quella del Festival olimpico invernale della gioventù europea (Eyof). Per rinascere a vita nuova e ripresentarsi al mondo con una veste scintillante, questo pezzo di terra martoriato dalla guerra ha scelto lo sport.
Sarajevo aveva provato a candidarsi per i Giochi del 2010, ma il Cio non l’ammise alla corsa. Così ha ripiegato sulla versione giovanile ed europea dell’Olimpiade della neve e del ghiaccio. I bosniaci avevano in mente di farcela per il 2017, invece sono serviti due anni in più per rimettere a lucido gli impianti, riportando l’agonismo in luoghi devastati dalle atrocità militari.
Fino al 15 febbraio Sarajevo ospiterà 911 giovani atleti di 46 Paesi, in lizza in otto discipline. Nessuno dei partecipanti, la cui età oscilla tra i 14 e i 18 anni, era già nato ai tempi della Guerra di Bosnia, alcuni ne avranno sentito parlare, altri ne avranno letto sui libri. Adesso sperimenteranno, in questa zona vogliosa di rinascere, la prima rassegna multi-sport della carriera, un evento che non dimenticheranno. Un domani potranno diventare campioni olimpici, oggi conta competere lealmente contro l’avversario, stringere la mano al coetaneo di un’altra nazione, abbattere le barriere mentali e cancellare i pregiudizi: elementi su cui lo sport è in prima fila.
In una città desiderosa di cancellare il passato nefasto, rinverdire quello glorioso e scrivere un nuovo futuro, l’Eyof catapulterà i piccoli sciatori sulle piste di slalom e gigante del monte Jahorina, arena nel 1984 dello sci femminile, proietterà gli acrobati in erba della tavola sul pendio di Bjelašnica, allora contesto dello sci maschile oggi dello snowboard, e farà rifiorire il poligono di Dvorišta, casa del biathlon. Anche i tracciati dello sci di fondo di Igman-Veliko Polje saranno gli stessi di 35 anni or sono, sebbene lo stadio, come anche le altre tribune e strutture provvisorie, sia stato rifatto. Il tutto per una spesa complessiva di 8 milioni di dollari.
In città, il curling andrà al palasport Peki, solitamente adibito al basket, unica arena non coinvolta nella rassegna a cinque cerchi. Pattinaggio di figura e short track riaccenderanno i riflettori sul complesso di Skenderjia, mentre il cuore pulsante del Festival sarà l’arena di Zetra, uno dei luoghi simbolo di Sarajevo, nel bene e nel male: nel 1984 fu teatro della prima cerimonia di chiusura olimpica ospitata in uno palazzetto al coperto, nel 1992 distrutta da un bombardamento, nei tre anni di conflitto adibita a obitorio e magazzino per i medicinali, mentre i sedili di legno venivano usati per le bare dei civili uccisi. Per la sua ricostruzione il Cio donò 11 milioni di euro, il 70% del costo della nuova opera, che oggi contiene il museo dei Giochi di Sarajevo ed è intitolata al marchese di Samaranch. Per l’Eyof sarà la casa del torneo di hockey, unica specialità che non vedrà ai blocchi di partenza la squadra italiana. Gli azzurri risponderanno presente all’appello nelle altre sette discipline.
Come da bon ton olimpico la spedizione tricolore risponde al criterio della parità di genere: 38 atleti, equamente ripartiti tra maschi e femmine. Nell’elenco anche due figli d’arte, entrambi nel biathlon: Fabio Piller Cottrer e Linda Zingerle. Pietro, il papà del primo, medagliato nel fondo a Salt Lake City, Torino e Vancouver, è uno dei tecnici della pattuglia azzurra, mentre Andreas, genitore di Linda, sul podio a Calgary 1988 allena oggi Dorothea Wierer e Lisa Vittozzi: è lui l’uomo dietro al cannocchiale durante le fasi di tiro.
Apertura domani a Sarajevo, chiusura venerdì prossimo a Sarajevo Est, così da accontentare tutti. Non ci sono muri, né linee di separazione tra le due parti, le lingue parlate sono tre (serbo, croato e bosniaco), ma la moneta di conto è unica: il marco bosniaco. Tra i trenta titoli in palio anche tante prove miste maschi-femmine, mentre rispetto a Erzurum 2017 non è in calendario il salto. Ristrutturare i trampolini sarebbe costato troppo, col rischio elevatissimo di creare cattedrali nel deserto. A Igman, per l’Olimpiade, furono eretti cinque trampolini, oggi ne restano in piedi due, ma completamente fatiscenti.
Il simbolo dei Giochi perduti sono i ruderi della pista di bob. Un cumulo di cemento rinvigorito dai graffiti degli artisti di strada, che durante la guerra era una piazzola per i mitragliatori. Meno male che agli Eyof non ci sono le discipline del budello: una spesa in meno per gli organizzatori e nessun disguido per i teenager di Sarajevo, che dopo la scuola si divertono scendendo dalla pista a bordo di uno skateboard.