lunedì 7 novembre 2011
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​«Lo vede, lo vede quel bel maiale lì? Ecco, domani diventerà un prosciutto di Parma e quello al suo fianco speck dell’Alto Adige». L’allevatore la butta lì, con nonchalance. Ma il cronista-consumatore fa un salto. Siamo in Lombardia. E visti da qui, lo speck dell’Alto Adige e il prosciutto di Parma sono molto, molto lontani. Passato il momento di straniamento, arriva inevitabile la domanda da profano: scusi, com’è possibile che un maiale allevato in Lombardia produca prosciutto di Parma o speck dell’Alto Adige? L’allevatore ci guarda come fossimo marziani (e per lui lo siamo di certo). Poi taglia corto: «Si legga i disciplinari». A questo punto, prima di andare avanti, serve una puntualizzazione. Ciò che stiamo per raccontarvi non vuole alzare il velo su alcuno scandalo né dare patenti di qualità a questa o quella merce. La nostra è solo una storia legata ai sogni e a quanto sappiamo di ciò che mangiamo. Perché, a ben vedere, quando compriamo quel certo prodotto alimentare noi acquistiamo anche il sogno di purezza, di tipicità, di gusto e di cultura di quel prodotto. E scoprire che certi prodotti non sono fatti come crediamo, fa in ogni caso un certo effetto. Partiamo da quello che ci ha detto l’allevatore lombardo sul prosciutto di Parma. Il disciplinare che offre online il consorzio del prosciutto di Parma è lungo 94 pagine e ha regole rigidissime. Al paragrafo B1 si legge: «La denominazione di origine “prosciutto di Parma” è riservata esclusivamente al prosciutto [...] ottenuto dalla cosce fresche di suini nati, allevati e macellati in una delle Regioni indicate dall’art. 3 del D.M. 15/2/93 n.253». Di più nelle 94 pagine al proposito non si dice. Allora andiamo a cercare il decreto citato. Che al punto 3 recita: «Le cosce suine fresche devono essere ottenute da suini che [...] siano nati, allevati e macellati in una delle seguenti regioni: Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, Molise, Umbria, Toscana, Marche, Abruzzo, Lazio e Molise». Come un maiale molisano diventi “di Parma” è facilmente comprensibile: la richiesta di questo prodotto eccellente è così alta che, per far fronte alla domanda, nel tempo si sono allargate le maglie delle zone di produzione. Nessuno scandalo. Anzi, a ben vedere ci abbiamo per certi versi guadagnato: il disciplinare infatti prevede regole rigidissime sui mangimi da dare agli animali, sul loro peso, la razza e il modo di allevarli. Stesso discorso vale per l’altrettanto eccellente prosciutto di San Daniele. «I suini italiani – recita il suo disciplinare – da cui proviene il prosciutto di San Daniele devono essere nati, allevati e macellati esclusivamente nelle seguenti regioni italiane: Friuli Venezia Giulia, Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo». Tutto corretto. Ciò che fa la differenza tra i due prosciutti – dicono gli esperti – è la tecnica di lavorazione. Le carni sono simili. E vengono utilizzati gli stessi maiali che daranno vita anche al salame di Felino, per fare un esempio. E cosa succede se ci si sposta su un prodotto d’eccellenza come il culatello di Zibello, cioè legato a un comune di 1.950 abitanti della provincia di Parma, ma famoso in tutto il mondo? «Gli allevamenti dei suini destinati alla produzione del culatello di Zibello – spiega il disciplinare del prodotto – devono essere situati nel territorio delle Regioni Lombardia ed Emilia Romagna». Fine. Ciò che conta, ripetono sempre tutti, è la lavorazione. E visti i risultati è sicuramente così. Però fa una certa impressione. Come trovarsi davanti a un maiale che diventerà speck dell’Alto Adige, ma è nato in Lombardia o magari all’estero. Il rigido disciplinare dello speck Alto Adige IGP recita infatti all’articolo 2: «La zona di elaborazione comprende l’intero territorio della provincia autonoma di Bolzano-Alto Adige (Südtirol)». La zona di elaborazione. Mentre quella di allevamento? La indica il comma 9 dell’articolo 4: «[Vanno usate cosce di] suini nati in allevamenti ubicati nei Paesi dell’Unione Europea». Qualunque dei 27 Paesi: dalla Francia come dal Belgio, dalla Romania come dall’Ungheria. Non va meglio con la bresaola della Valtellina. Accanto a piccoli produttori che fanno prodotti italiani al 100% (come Spigaroli, Poretti o la Fiorida) il grosso della bresaola valtellinese è prodotto (come prevede il disciplinare) «con carne ricavata dalle cosce di bovino dell’età compresa fra i 18 mesi e i quattro anni». Sulla provenienze non si dice nulla. Infatti la carne arriva in larga parte dal Brasile e dall’Uruguay. «È fatta con zebù congelato», hanno scritto più volte critici del calibro di Francesco Arrigoni, Franco Ziliani ed Edoardo Raspelli. A trasformare ancora una volta un animale straniero in un prodotto locale è la magia del disciplinare. Che in questo caso recita: «La bresaola della Valtellina viene elaborata nella tradizionale zona di produzione che comprende l’intero territorio della provincia di Sondrio». Elaborata, non creata. Meglio addolcirci il palato con un’ottima mozzarella di bufala campana. Un eccellente prodotto Dop, cioè di Denominazione di origine protetta. Che essendo “di bufala campana” – per esempio – «può essere fatto con latte prodotto ed elaborato nel comune di Roma. O in quello di Foggia, Isernia, Frosinone, Latina, Lucera, San Giovanni Rotondo». E ovviamente «nell’intero territorio delle province di Caserta e Salerno, nei comuni di Amorosi, Dugenta e Limatola in provincia di Benevento, e in quelli di Acerra, Giugliano, Pozzuoli, Qualiano, Arzano, Cardito, Frattamaggiore, Frattaminore e Mugnano di Napoli in provincia di Napoli». Lo ripetiamo ancora una volta. Non c’è alcuno scandalo. E questo non va a discapito, anzi, della qualità del prodotto. Scoprirlo produce solo un piccolo cortocircuito tra l’indicazione locale di certi prodotti e la loro reale provenienza. Non a caso, una delle migliori mozzarelle pugliesi, fatte con latte tradizionale, che si può mangiare a Milano, viene prodotta a... Milano, in via Varesina. Discorso completamente diverso invece riguarda, per fare un esempio, il pane di Altamura. «La denominazione di origine protetta “pane di Altamura” è propria del pane ottenuto mediante l’antico sistema di lavorazione e dall’impiego di semole rimacinate di varietà di grano duro coltivato nei territori dei comuni della Murgia nord-occidentale (Altamura, Gravina di Puglia, Poggiorsini, Spinazzola e Minervino Murge)». In questo pane di grano cinese o dell’Est non c’è traccia. Ma quella del grano straniero utilizzato per fare la pasta made in Italy è una storia a sé.
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