venerdì 8 agosto 2014
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Era l’autunno del 1981 quando conobbi Luigi Santucci a Potenza, lui aveva vinto il premio Basilicata per la narrativa, con Il bambino della strega, un racconto parabolare, io ero lì per la saggistica. Eravamo a tavola, davanti a una portata di strascinati con pomodorini e peperoni cruschi e ciò che mi si impresse nella mente fu  la nuvola di fumo aromatico che si levava dalla sua pipa, il fetore delle sigarette di Tommaso Pedio e la nebbia ammorbante che si produceva dal sigaro di Carlo Bo. Santucci mi parve più vivace e facile al sorriso, magnificava i piatti e provava a tessere un dialogo critico con il sommo maestro, ma Bo era taciturno e serioso, come un buddha dormiente dai capelli corti e radi che gonfiava le guance a mantice e poi sbuffava  fumo. Allora si usava fumare nei ristoranti e la cortina mentre impediva di assaporare i cibi ti gettava in un’atmosfera surreale, nebbiosa e cinematografica dove affioravano tra i ricordi di Maigret, di Humphrey Bogart e le scenografie di Casablanca e Fronte del porto, proprio le atmosfere oniriche che si respiravano nei romanzi di Santucci. Carlo Bo era una divinità della critica letteraria, un patriarca di quella repubblica delle lettere alla quale aspiravo, mentre Santucci era aureolato dalla fama del suo romanzo Orfeo in Paradiso che aveva spopolato ed era approdato al cinema, leggermente sfiorato dalla ruggine del suo cattolicesimo integrale e io lo osservavo con l’invidia di chi aspira a una narrativa di livello e a uno spicchio di successo. Avevo cominciato a seguirlo dal ’64 nel Velocifero, un romanzo apparentemente burbanzoso venato dallo strascico di neorealismo che disseminava il dialetto lombardo. Un dialetto che mi risultava ostico se non impenetrabile e che accresceva l’ironia descrittiva di sapore manzoniano. Il Velocifero, la carrozza che attraversava la Milano di fine ’800, la interpretai come metafora di un mezzo che può aiutare gli uomini ad attraversare un mondo borghese e piatto nel quale c’è non la felicità ma una finzione di felicità. Il Velocifero è a mio parere certamente la famiglia, il suo ambiente protettivo simile a un’arca di Noè, ma soprattutto è la scelta che opera Silvia nell’ultima parte del libro, Silvia che si farà suora, non dico tanto la scelta del convento da lei effettuata quanto la decisione di abbracciare la fede cristiana in modo radicale e profondo. L’adesione a Cristo come reazione al piattume borghese. Si viveva in quegli anni il vento di rinnovo del concilio Vaticano II, Santucci era affascinato dalla figura di Giovanni XXIII per il quale scrisse dei versi e dall’amicizia con padre Turoldo e don Ravasi. Si faceva strada in lui la necessità di rileggere e reincarnare il Vangelo e utilizzare il racconto parabolare alla maniera di Dostoevskij. Lo fa nel 1963 nelle Leggende cristiane e più tardi, nel ’69, in Una vita di Gesù, uscita col titolo di Volete andarvene anche voi?. Santucci si rivelava scrittore della gioia e della tenerezza, sentimenti che mutuava dal mondo dell’infanzia e dal sorriso dei bambini, ai quali avrebbe dedicato molti racconti e un libro di letteratura per l’infanzia che Croce ritenne «acuto e accurato». Nella Vita di Gesù ricostruiva invece l’atmosfera di allucinazione e di beatitudine che si respirava tra le folle e le vie della Palestina. Tra riflessioni, versi, monologhi, autoanalisi, emergevano le vite dei protagonisti evangelici in una riscrittura lirica e con una adesione esistenziale al racconto. La mortificazione di Giuda di fronte al tradimento così umano consumato ai danni del Maestro, la macerazione di Pilato, al quale i giudei sono riusciti a strappare la condanna a morte del giovane incriminato. Una serie di vite perlustrate attraverso lo scavo psicologico, per dare corpo a un racconto dolcissimo e profondamente vicino alla quotidianità, un racconto che ha bisogno di essere rivissuto con la delicatezza della poesia. Aveva proprio bisogno di inventare una vita più lieve, un umano più umano, quel sogno che Chagall inseguiva nei suoi cieli per sfuggire ai meandri ferrei del mondo sovietico. Santucci voleva sfuggire alla geometria della metropoli, all’affarismo imprenditoriale, alla rivoluzione industriale delle ferraglie che stava attanagliando la vita milanese in una prigione di denaro, di smog e di benessere a tutti i costi. La vita era altrove ribadiva lo scrittore, nelle arie leggere della fisarmonica che amava suonare, nelle conversazioni in villa con don Ravasi, nel dialogo con i figli. Così altrove proponeva una ironica fuga da Milano assediata dallo smog, invitava a non mortificare o demonizzare le rivolte dei giovani sessantottini che lui seguiva attraverso la vita dei suoi figli e che descriveva  in quel romanzo ancora una volta metaforico che è Non sparate sui narcisi (1971), come dire non distruggete la bellezza dei fiori, questi figli dei fiori che si ribellano alla logica del denaro e della cultura piatta e assopita. La vita di Gesù era la stessa vita dei giovani narcisi. Intanto aveva progettato una fuga verso l’irrealtà onirica determinata dall’improvvisa morte della madre, in Orfeo in Paradiso. Il romanzo  ricordava  il surrealismo inquieto del Faust e si profilava come un’autobiografia dello scrittore, ferito da quella inattesa scomparsa: la madre, alla quale aveva dedicato i versi di Se io mi scorderò. Anche la madre di Orfeo, il protagonista, è morta da poco e il giovane, disperato, si è portato sulle guglie del Duomo e medita un salto nel vuoto per ricongiungersi agli affetti perduti. Ma per un magico accordo con uno stravagante Monsieur des oiseaux, un accordo mefistofelico con una creatura sulfurea, Orfeo vola nel vuoto e risale la corrente del tempo, fino alla giovinezza della madre e agli anni che precedono la Grande guerra e la rivolta milanese di fine Ottocento. Il racconto mutua il mito orfico classico trasponendolo nel presente, la discesa di Orfeo nell’Ade, la ricerca di Euridice, in questo caso la madre, da strappare alla morte, una rivisitazione della vita di lei a partire dalla sua giovinezza. Ancora una volta Santucci si rifugia in quello spicchio di secolo che precede la rivoluzione industriale e il Novecento. Ma il viaggio agli inferi lo convince a risalire verso la contemporaneità e nella riconquista del presente lo avverte che è ancora possibile la gioia nonostante le stranezze dei tempi correnti.(12, fine. Le precedenti puntate sono uscite il 3, 6, 10, 12, 17, 19, 23, 26, 31 luglio e il 2 e 5 agosto)
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