sabato 31 ottobre 2015
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Come sempre è san Tommaso a trovare le parole giuste: professando nel Credo la comunione dei santi, il cristiano entra a far parte di una societas, egli dice, fatta di persone che si propongono di realizzare il bene nel nome di Cristo. Questa società riguarda dunque sia tutti gli uomini (tutti gli uomini di buona volontà) sia anche ogni cosa (ogni cosa buona). Ma perché nel nome di Cristo? Perché il bene che è lo scopo e il fondamento di essa non è qualcosa che si possa dimostrare o definire. Semmai lo si trova per imitazione. Imitazione di Cristo, per l’appunto. Quell’imitazione cui ogni membro di questa società mistica è chiamato. Nel senso che in ogni momento della vita e in ogni angolo della Terra costui deve chiedersi non tanto che cosa sia il bene, ma che cosa farebbe Cristo, che del bene è l’incarnazione perfetta, in quella determinata situazione. Questo vale non solo per coloro che hanno conosciuto il Cristo. Ma anche per chi non l’ha conosciuto. Infatti la sua immagine – magari sepolta, magari oscurata, o magari anche più luminosa in coloro che non l’hanno conosciuto – è presente nell’anima di ognuno e può orientare e salvare chiunque. Per questa via si arriva facilmente a quello che potremmo chiamare (e così effettivamente è stato chiamato) il principio della solidarietà di tutti gli uomini nel bene. Lutero ne aggiunge un altro: il principio della solidarietà nella colpa. Secondo Lutero alla base della comunione dei santi c’è bensì una società fatta di buoni e di beni, ma anche di peccatori e di peccati. Del resto non è forse un peccatore anche il santo? Il santo è anzitutto colui che riconosce il proprio peccato. E ha una consapevolezza così alta e profonda di ciò, che non esita a estenderla al peccato altrui: al punto da sentirsi colpevole o comunque coinvolto nella colpa di fronte a tutte le colpe degli uomini. Il santo diventa in modo eminente ed esemplare colui che soffre per ogni colpa come se fosse sua. E soffre del male altrui come del suo stesso male. Così come gioisce della gioia altrui come se fosse la sua stessa gioia. Cosa, questa, che sarebbe impossibile o avrebbe un valore puramente esornativo se la sincera partecipazione alla gioia degli altri non fosse preceduta dalla non meno sincera partecipazione alla sofferenza degli altri. Non stupisce che su queste basi la teologia, sia cattolica sia protestante, abbia tematizzato la comunione dei santi tanto in chiave ecclesiologica quanto antropologica. Così per esempio, ai giorni nostri, in Rahner e in Guardini, in Barth e in Bonhoeffer. Resterebbe da chiedersi se l’antropologia della comunione dei santi non sia anche più importante dell’ecclesiologia. Certo, la Chiesa è il luogo della comunione dei santi. Ma questo luogo è infinitamente più ampio della Chiesa. È lo Spirito. Né bisogna dimenticare il contributo dato alla riflessione su questo tema dalla tradizione ortodossa, specialmente dal monachesimo russo, la cui lezione è stata fatta sua in quel suo modo impareggiabile da Dostoevskij. È come se Dostoevskij unisse il principio (tomistico) della solidarietà nel bene al principio (luterano) della solidarietà nella colpa. E ne ricavasse un’ardita concezione: per cui l’uomo, ogni uomo, è tenuto a rispondere di tutto e per tutto a tutti, assumendosi dunque la responsabilità per qualunque cosa venga fatta anche all’ultimo e al più lontano dei suoi fratelli, semplicemente perché suo fratello. Un’idea sublime? Una follia? Forse. Ma certamente di quel tipo di follia che è sapienza agli occhi di Dio e che ispira la comunione dei santi. Quanto alla filosofia, c’è poco da dire. Difficile trovare, specialmente nella filosofia degli ultimi due secoli, pensieri all’altezza di questo tema. Sarà la secolarizzazione, sarà la scristianizzazione; certo è che la filosofia ha taciuto di fronte alla sfida che le viene mossa da più d’uno dei contenuti del simbolo apostolico, in particolare la comunione dei santi. Semmai della comunione dei santi si è ricordata la poesia. Declinandola però come la comunione dei vivi e dei morti. È di questo che ci parla Ugo Foscolo, l’ateo Foscolo, quando evoca la «celeste» (ossia divina) «corrispondenza d’amorosi sensi,/ celeste dote… negli umani » e afferma che «per lei si vive con l’amico estinto/ e l’estinto con noi». Come non vedere in tutto ciò una eco della comunione dei santi? Eco di un’eco sono i versi di un poeta contemporaneo, Franco Marcoaldi, apparsi recentemente (Il mondo sia lodato) e che sollevano domande del tipo: dove stanno i nostri morti? che ne è di loro? per concludere così: «Sono quelle schegge di bontà/ senza ritorno, piccole crepe/ nel grande mare dell’indifferenza, spicciole figure d’immortalità/ figlie di debolezza, granelli/ di sabbia che si librano/ nel vento a inceppare/ il meccanismo feroce/ e onnipresente del maligno./ A loro, ai morti, chiedo/ di offrirmi qualche appiglio». Sapientemente la liturgia mette insieme, l’una di seguito all’altra, la festività dei santi e la commemorazione dei defunti. E i poeti, almeno alcuni di loro, non hanno mancato di cogliere il senso di questo accostamento.
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