lunedì 20 maggio 2013
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Si andava verso la primavera del 1812, ma non c’era primavera, solo pioggia e umidità. Né veniva l’estate, solo umidità e temporali. Anche l’autunno passò, ma l’inverno, quello venne (Trygve Gulbranssen, La voce della foresta).Si aspettava primavera; l’aspettavano gli animali dei boschi allo stremo, esausti dal troppo raspare strati di neve e ghiaccio. L’aspettavano gli animali nelle stalle sprangate dal maltempo, le greppie lucide, leccate e rileccate ad alleviare di saliva la fame. L’aspettavano uomini e donne, bambini e vecchi, malconci e smunti. Inverno lungo a seguire un ben triste autunno di miserevoli raccolti da una estate estenuante, ventosa e arida. Poche patate brutte piccole e mezze marce, castagne insufficienti, farina scarsa. Casse vuote e pance dolenti. E primavera non venne; la neve diventò pioggia pioveva sempre e quando usciva il sole era caldo come fosse estate. I conti che si fecero nelle famiglie furono conti di disgrazia per uomini e bestie: fu carestia. I vecchi si arresero d’inedia, i bimbi avvizzirono e caddero poi smisero di nascere. Le greggi: ossa e pellacce stramazzate a terra. La carestia è una piaga che s’abbatte sul mondo da che c’è storia. La porta siccità, il secco che secca. La porta pioggia, l’umido che ristagna ammuffa e fa fiorire il marcio. Consegue da malvagità; le guerre che distruggono i raccolti si portano via gli uomini intruppati a frotte e se e quando li rilasciano ricominciare ha un tempo, tempo di carestia, di mancanza. Consegue ad un ordinamento dell’universo, meccanica celeste, ben altro e in quali forme dalle officine degli uomini; una gloria che ci sovrasta e può annichilirci. Pensieri ritrovati in questa primavera di grazia 2013, residuali di una infanzia felice; una antica casa rifugio e dimora, una nonna e un nipotino a farsi compagnia. Fuori tormenta e attorno al fuoco della stufa, la cucina in penombra, il racconto illuminava e scaldava il mondo – devi sapere, bimbo, che quando mia nonna era bimba, al tempo di Napoleone imperatore, com’è come non è una terribile carestia s’abbattè sul paese, morirono in tanti e chi scampò fu ridotto in miseria –. Mi è capitato di parlarne con qualche vecchio e mi hanno guardato stupiti.
Pur in condizioni climatiche simili nessuno ci aveva pensato: in un mondo tradizionale saremmo nel secondo anno di carestia – ormai compriamo tutto, sappiamo e pensiamo quello che dice la televisione –. Viviamo in casa nostra come fosse casa d’altri. È sceso il buio sulle generazioni, tranciato il legame tra passato e futuro. Del presente, l’unica cosa che ci resta, si colgono le negatività, le incongruenze, dando per acquisite ed inalienabili le positività, le straordinarie comodità. Le difficoltà del vivere, la complessità dell’organizzazione sociale, ridotte ad un festival dei diritti e ogni voglia aspira ad una legge che la legittimi imponendola. Ci si nutre di indignazione, di denuncia, in una spasmodica tensione ad una resa di conti, una tabula rasa rigenerante. L’urgenza è nell’aria. Nascono profeti seriali, ogni moribondo con ultimo respiro si professa il nuovo che avanza, ogni ideologia sopravvissuta si certifica agente del cambiamento. Lo spettacolo offerto, ultimo collante dell’umano genere, è superbo: dal trash al tragico traverso la commedia e sempre musica pompata in sottofondo. La Terra è diventata Gaia il pianeta dei buoni propositi che bastano ai buoni sentimenti. KmZero è un’opzione salvifica; chi lo inscena e promuove è sempre in giro per il mondo, avanti indietro in tondo, a noi ecocompatibili beneficiati toccherebbe applaudire nel nostro secondo anno di carestia; battito ritmato lento. Cittadine, cittadini, uno sforzo ancora! La democrazia? Una connessione web banda larga. I nativi digitali sono già tra noi, arriveranno gli uforobot, portano pace, progresso, abbondanza ed ogni giorno sarà festa, una eterna vacanza. Nel frattempo, per non stare con le mani in mano, abbiamo fatto della domenica un giorno qualsiasi. Felicitazioni!
Esco di buon ora, case sprangate, paese vuoto. Unico rumore i miei passi, solo movimento i cani che mi accompagnano al cancello saltandomi intorno per farsi carezzare. Mi fermo davanti la Maestà: il cero è acceso, i fiori reggeranno fino al mio ritorno; un veloce sguardo ai monti, andarmene anche per pochi giorni mi stringe il cuore. Chilometri e km di strada statale senza incontrare un’auto, per buona parte dell’anno sembra una strada privata inibita al traffico. Giornata di nuvole, nebbie, pioviggina, squarci di sereno; canticchio, lascio correre i pensieri mentre gli occhi decifrano le infinite varietà del grigio in tavolozza infinita. Di tutti coloro che mi hanno preceduto nei secoli in questo paesaggio nessuno se l’è goduto con l’agio e le comodità di cui io dispongo. Sempre a piedi, raro a cavallo; al sole, al gelo, zuppi d’acqua, impantanati; sani, malati, felici o disperati nei secoli, nei millenni. Nel tempo della mia generazione la mulattiera s’è fatta carrozzabile, prima è comparsa una scalcagnata corriera ed adesso io viaggio in pick-up. A qualcuno, qualcosa, dovrò pur rendere merito. Ci sono utensili, marchingegni, invenzioni della modernità (una idea stessa della modernità che, pur vecchia di secoli, solo negli ultimi decenni è diventata pratica reale quotidiana di interi popoli) che vorrei poter offrire in dono a mia nonna, nella nostra cucina della nostra vita d’allora. – guarda, nonna, è una lavatrice: non dovrai più spaccarti le dita al gelo per tenerci puliti. È una motosega: la legna per scaldarci tutto l’anno la facciamo in tre giorni. Questo è quasi inutile ma te lo regalo lo stesso per farti sorridere: è un frullino elettrico, in trenta secondi fa uno zabaione da leccarsi i baffi –. Vivere il proprio tempo sapendo, coscienza di carne, che c’è stato altro e altro ci sarà dall’oggi. La società non è nata il 25 aprile del 1945, la cultura non è riducibile all’epopea del beat che pare averci generati e per far fronte al disastro del presente qualche lezione di storia e d’arte bisogna pur farle. È obbligatorio.(continua, forse)
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