venerdì 12 maggio 2017
I due artisti furono sodali nella Torino dei primi anni 70, dominati dall’Arte Povera. Due sensibilità quasi opposte e il tema del narcisismo creativo: una mostra al Masi rilegge la loro esperienza
Alighiero Boetti e Salvo a Vernazza, 1969 (Anne Marie Sauzeau/Masi)

Alighiero Boetti e Salvo a Vernazza, 1969 (Anne Marie Sauzeau/Masi)

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Siamo agli antipodi, anche se dentro il clima degli anni Settanta può darsi che sembrassero vicini, persino gemelli siamesi. Ma erano espressione di due modi quasi opposti di pensare l’arte: uno inseguiva la propria ombra (sdoppiandosi, riavvicinandosi, perdendosi, come scrive Bettina della Casa introducendo la mostra Boetti/Salvo al Museo d’arte della Svizzera italiana), era concettuale per sottrazione di sé e coincidenza col proprio distillato mentale; l’altro era oltre Narciso, compiaciuto della propria autorialità, e finì negli anni Ottanta per cedere alla suprema delle tentazioni postmoderne, la pittura ludica. Il primo, Alighiero Boetti, ha camminato disperatamente sulla “congiunzione”. Fin dal 1972 si firmava Alighiero e Boetti. Credo che suonasse bene il cognome, accostato a molti nomi li esalta nella congiunzione, tanto che la mostra di Lugano sarebbe apparsa più ironica se intitolata a Salvo e Boetti. Ma immagino che non si volesse creare una facile eufonia, o forse una troppo stretta identificazione, che Salvo, il secondo personaggio di questa mostra, forse non avrebbe gradito, se è vero, come scrive Bettina della Casa, che nel 2011 intervenendo al “Boetti Day” «sceglie un tono ironico, quasi svalutante, non sembra disposto a consacrare quel rapporto, quella stagione». La stagione risale al 1969-’71, quando Salvo a Torino è ospite di Boetti.

Per dirla in modo secco, credo che Salvo si rendesse conto che fin quando a Torino, nel clima segnato dall’Arte Povera e dal concettualismo, fu a contatto col genio allusivo e pindarico di Boetti, il suo linguaggio, pur segnato da un ego autocelebrativo, conservò quel predicato ironico che poteva far sembrare il narcisismo una leva critica contro lo sviluppo delle ricerche artistiche dirette verso la spersonalizzazione del genio, la rarefazione del timbro individuale nell’idea. Già negli anni in cui lavorano gomito a gomito, lo stile di Boetti si rivela più forte, più chiaro, più riconoscibile. Il Boetti che si raddoppia nella fotografia Gemelli del 1968 non è sovrapponibile alla fotografia Tra zero e uno di Salvo del 1969: entrambi si sdoppiano-raddoppiano, ma al primo è sufficiente questa moltiplicazione di sé per far entrare in gioco una infinità di significati allusivi, simbolici, estetici, mentre all’altro è necessario variare l’immagine (in una le mani si uniscono per accogliere qualcosa, nella seconda reggono una mela), creare insomma un dispositivo che giustifichi quel raddoppiamento. Lo stesso nelle tre foto (distinte) della Benedizione di Lucerna (1970-75) dove Salvo appare nella posa tipica dei santi che impartiscono una benedizione (mignolo e anulare chiusi, le altre tre dita aperte), ha dietro la testa il cerchio dell’aureola e, in una delle due foto tiene nella sinistra una sigaretta. Nella terza foto figura di spalle mentre benedice la città. A Boetti basta molto meno: si ritrae mentre tiene fra le mani una specie di strumento musicale a corde che ha la tastiera da entrambi i lati. Lo sdoppiamento del presunto strumento, che assomiglia a un banjo (ma è solo allusione), presuppone la distinzione in una stessa persona di due musiche e due sonorità, due in uno.

Salvo Mangone, che è morto nel 2015 (Boetti nel 1994), dà il meglio di sé nelle lapidi ese- guite fra il 1969 e il 1972, sulle quali incide parole o frasi come “Salvo è vivo”, “Io sono il migliore”, “Più tempo in meno spazio”, oppure una lista di nomi (come quelle dei caduti in guerra), dove figurano Aristotele e Kafka, Rembrandt e Gesù, Omero e... Salvo. Sono giochi linguistici, allusioni ironiche; una filastrocca sulla tigre che fa la posta a un uomo sospeso a una liana, finisce con lui sembra dimenticarsi della sua precarietà e si slancia verso una roccia per afferrare una fragola selvatica... «e la mangiò: com’era delizioso il suo gusto». Non è poesia vera, non è “visibile parlare”, è puro esercizio d’ironia egolinguistica.

Lo stesso accade con la serie delle Tautologie. Boetti punta sul silenzio semantico: Ghise del 1968, presenta due lastre di ghisa con la zigrinatura appoggiate a un muro. Un esempio in linea con l’Arte Povera, ma in realtà quasi privo di valore denotativo e simbolico: il contenuto è l’oggetto stesso, scisso in due. Che il senso si celi nel taglio che ha sdoppiato la lastra non è importante, Boetti sembra dirci: guarda le cose per quello che sono. Il concetto è tutto. Ed è il semplice raddoppio della lastra. Si può fare tautologia anche con un punzone, così per esempio nella Dama del 1967 dove tante tessere quadrate punzonate e identiche, accostate in un modo simile al domino creano una trama di punti leggera che pare alludere a certe decorazioni orientali. E al ricamo, che ritornerà in altre opere di Boetti. Nella tautologia ritroviamo anche il codice d’artista, siglato sul foglio del 1971 Alighiero e Boetti eseguito con la penna biro. Per Salvo la tautologia è ancora una volta esercizio dell’ego: Salvo in tricoloreè scritto col neon, ricamato su tessuto, dipinto a olio su tavola, oppure su fogli di carta da giornale.

La sintesi di questa differenza di stile è riassunta dalla curatrice: «Se Boetti, dopo la fase poverista, è impegnato a “diventare il proprio doppio”, Salvo è intento a “diventare un altro”». Ma volendo trarre una conclusione, potremmo dire che l’espressione del giovane Rimbaud – quattro parole che riassumono la modernità e la sua complessità: «Io è un altro» –, calza a Boetti assai più che a Salvo. Il primo conserva una sottile vena tragica e ludica al tempo stesso, che il patchwork di lettere o le mappe del mondo con le bandiere degli Stati ricamate su tessuti negli anni Ottanta rendono ancor più viva nel gioco dei colori. Sono anni di apoteosi per entrambi gli artisti: ma il rigore degli inizi torinesi si è sciolto ormai nell’acido postmoderno dove il gioco ha perduto quel senso nichilista di sfida al destino dello Zarathustra di Nietzsche.

Salvo ha cavalcato quell’epoca aderendo alla moda citazionista, anacronista, reiterando quei colorini saturi di una luce lunare e artificiosa in una pittura che ha risciacquato nelle acque del Mediterraneo più esotico la metafisica e il realismo magico del primo Novecento. Boetti resta, tra i due, il più dotato di misura e di pudore, forse perché, come si sottolinea nei saggi in catalogo, la sua polemica verso l’autorialità lo spinge a separarsi dalla lavorazione pratica dell’opera. È concettuale, come avrebbe potuto esserlo Leon Battista Alberti che risolveva l’architettura nel disegno dell’edificio. Boetti s’inscrive nella tradizione di un’arte che si realizza nella sua stessa ideazione; Salvo cede invece alle lusinghe della “cattiva pittura” che con la Transavanguardia farà da ostetrica al kitschfigurativo, facendo credere a molti che per ritrovare il bandolo della matassa bisognasse fingere di tornare “agli antichi” (anche quelli del XX secolo: il De Chirico degli anni Dieci, per esempio). E proprio per questo più che un trattino, fra Boetti e Salvo, avrebbe meglio figurato un dialettico aut aut.

Lugano, Masi

BOETTI/SALVO

Fino al 28 agosto

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